L'ultimo segnale di allarme l'ha lanciato ieri pomeriggio Matteo Renzi con un sms ai suoi parlamentari con questi toni: «Qui su Autostrade, Mes e nomine alle authority o nelle presidenze delle Commissioni parlamentari, qualcuno punta a rompere. Si chiuderà last minute mercoledì, ma può succedere di tutto e mi assumerò io tutta la responsabilità di ciò che avverrà». Nelle stesse ore anche gli altri leader della cosiddetta maggioranza giallorossa avranno detto più o meno la stessa cosa, usando le medesime parole forse con meno sincerità. La verità è che sono mesi che si va avanti così, miscelando calcoli di potere con pseudo-ideologie. E spesso queste ultime servono solo a garantire i primi. Addirittura il premier ha trasformato la stessa guerra all'epidemia in un'ideologia che serve solo a salvaguardare il suo governo, l'equilibrio politico su cui si basa o, per essere più profani, la sua poltrona.
Solo che l'humus delle ideologie, anche per quelle raffazzonate e bischere della terza Repubblica, dovrebbe essere la coerenza. Magari tonta e cieca. Invece, di questi tempi, ci si appella all'ideologia solo per convenienza: pure la guerra al Covid-19 si è trasformata nell'ideologia dell'emergenza, cioè una sorta di asso nella manica di Conte per durare; più o meno come il nome dei Benetton è diventato uno spauracchio per riscaldare gli animi del movimento e ricompattarlo nei momenti di difficoltà. Anche perché spesso si assume una posizione, ma poi non si è conseguenti, non la si sposa cioè con una visione, con una politica.
La vicenda della decisione di Conte di protrarre lo stato d'emergenza nel Paese è emblematica. Inutile stare appresso ai virologi o agli scienziati, visto che ognuno dice la sua. È successo all'inizio della pandemia e nulla è cambiato: ormai nella virulenza delle polemiche tra loro fanno a gara con i politici; le previsioni, invece, somigliano tanto ai pronostici dei maghi del calcio. Ma se il premier accetta la tesi che l'epidemia non è ancora finita, predica prudenza e rivendica il potere di decidere con tempestività (il che può starci), deve però essere lineare nei passi successivi. E il primo provvedimento nella logica dello stato d'emergenza, dovrebbe prevedere una chiusura delle frontiere verso quei paesi che presentano un alto tasso di contagio. Dato che nell'Ue il virus è sotto controllo, il blocco delle frontiere, dei voli, delle navi, ecc., dovrebbe riguardare non solo gli Stati Uniti, il Sud America o buona parte dei paesi asiatici, ma anche l'Africa, compresi i barconi di migranti. Su questo c'è poco da discutere, perché basta tornare con la memoria indietro al gennaio scorso per scoprire come l'epidemia nel nostro Paese si è diffusa per un paziente zero arrivato dalla Cina. La chiusura delle frontiere nei confronti di questi paesi, sarebbe un modo anche per rassicurare l'opinione pubblica ed evitare che torni a salire l'intolleranza verso gli stranieri, frutto non di un conato di razzismo ma di paura.
Contemporaneamente - secondo passo di uno stato di emergenza coerente - bisognerebbe prepararsi per tempo, non come si fece a gennaio, al pericolo di un ritorno del virus. Bisognerebbe cioè supplire alle lacune che ha mostrato - non certo per colpa di medici e infermieri che sono stati davvero eroici - il nostro sistema sanitario. Perché possiamo anche raccontarcela come vogliamo, tessendo le lodi del modello italico, ma non dimentichiamo che da noi ci sono stati 35mila morti e gli Stati Uniti, per fare un esempio, per raggiungere in percentuale i numeri della nostra tragedia in rapporto al numero degli abitanti, dovrebbero aggiungere altri 120mila morti agli attuali 137mila. Questo per dire che saremo stati anche bravi, ma c'è molto da rivedere nel nostro sistema sanitario per essere pronti ad affrontare il ritorno del coronavirus. Il che significa, in soldoni, che bisognerebbe ricorrere al Mes ora e non a settembre, come, invece, fa comodo a Conte per salvaguardare gli equilibri della sua maggioranza. Anzi, o lo si chiede ora, o è inutile pensarci in autunno perché a quella data si saprà già se il virus riapparirà per guastarci la vita o no; e qualora si concretizzasse l'ipotesi peggiore sarebbe, comunque, già troppo tardi per intervenire.
Se non farà questi due passi è, evidente, che per il premier lo stato d'emergenza è solo uno strumento per ostacolare i disegni di chi punta a farlo fuori. Una tesi che forse pecca di un eccesso di malizia, ma è anche vero che se si legge in controluce l'approccio di Conte ai problemi ci si accorge che punta sempre - da questo punto di vista la coerenza è ferrea - a salvaguardare la sua permanenza a Palazzo Chigi. Un discorso che vale pure per il dossier Autostrade. Parlare ora di revoca della concessione ai Benetton a due anni dal crollo del Ponte Morandi fa quasi ridere. Il paradosso è che si è impiegato meno tempo a ricostruire l'opera che non a decidere chi l'avrebbe dovuta gestire. Un assurdo, per l'Italia, che lo stesso premier qualche giorno fa ha esorcizzato con una battuta di spirito: «Non è colpa nostra se ci hanno impiegato poco tempo a ricostruire il ponte...». Non bisogna dimenticare, poi, che fin dall'inizio Conte è sempre stato prudente sull'ipotesi della revoca: il contenzioso giudiziario potrebbe costare molto caro allo Stato; in più c'è una difficoltà evidente a immaginare chi - per lo Stato - dovrebbe sostituire l'attuale società nella gestione della rete autostradale. Allora perché il premier si è schierato nelle ultime 48 ore con l'ala più ideologica dei 5stelle e più schierata per la revoca? Semplice, Conte per difendersi dalle insidie dell'eccessivo movimentismo di Di Maio (incontri con Draghi e Gianni Letta) si è trasformato nel portabandiera dell'identità grillina. Un vero Zelig. E si è portato dietro tutta la corrente governativa dei 5stelle: «Su questo argomento - è arrivato a dire Stefano Buffagni - ci potrebbe convenire anche la crisi». Naturalmente nelle logiche del premier l'ideologia grillina non c'entra nulla: si tratta di puro tatticismo. «L'ha fatto - ammette Renzi - per utilizzare l'ala dura del movimento contro Di Maio. Ma le loro diatribe non possono creare problemi al Paese.
L'unica ipotesi possibile è che lo Stato entri dentro Atlantia con Cassa depositi e prestiti attraverso un aumento di capitale». Sarebbe la soluzione più logica, una soluzione che lo stesso premier non ha mai rifiutato. Solo che al Conte-Zelig al momento aspettando di cambiare domani, piace (e fa comodo) più il Dibba che non Di Maio.
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