È grazie alla pubblicità, al «famigerato» merchandising proposto sugli scaffali nei bookshop dei musei di mezzo mondo, che un'opera d'arte assurge al livello di icona. C'entrano relativamente l'autore, la storia, la collocazione, i libri accademici: per diventare un mito ci vuole qualcosa di più, l'immersione nel mondo reale di cui i capolavori di ogni tempo hanno bisogno per incidere nel presente. Basterebbero, come esempi, una scultura e un dipinto conservati al Louvre. La Vittoria Alata di Samotracia, altrimenti conosciuta come Nike, che tutti gli adolescenti e gli atleti della terra indossano da quando la riduzione grafica del rapporto tra la testa e l'ala sinistra aperta in volo si è trasformata nel celebre logo a baffetto per indicare scarpe e accessori sportivi. La Gioconda di Leonardo da Vinci, coverizzata nell'Ottocento da Jean-Baptiste Corot e deturpata da Marcel Duchamp, finita poi in centinaia di poster, magliette, tazze per la colazione, nei cartoni dei Simpson e amata per la sua inquietante ed enigmatica ambiguità.
Una passeggiata davvero curiosa nella storia dell'arte è ciò che tenta il libro Io sono un mito. I capolavori dell'arte che sono diventati icone del nostro tempo (Electa, pagg. 144, euro 19,90), curata dalla giornalista Francesca Bonazzoli e dall'editor Michele Robecchi, impreziosita dalla breve prefazione di Maurizio Cattelan. In effetti l'artista italiano vivente più famoso al mondo - da quando si è prepensionato ha scoperto una parallela attività di commentatore - avrebbe forse meritato l'inclusione in questo particolare atlante, almeno con La nona ora, quella scultura in cui schianta a terra Papa Karol Papa Wojtyla, colpito da un meteorite, ovvero l'icona più potente dell'era postmediatica.
Ma la riflessione preferisce non includere i contemporanei e soffermarsi sulla «vera» storia dell'arte proprio per sottolineare quanto gli antichi fossero più avvezzi di noi nel costruire immagini assai convincenti e capaci di bucare lo schermo dell'audience specialistica. Si parte dal Discobolo di Mirone (480-440 a.C.) e si arriva fino a Le fils de l'homme, dipinto dal surrealista belga René Magritte nel 1964. Il primo ha ispirato locandine di giochi olimpici, fotografie di atleti usate dai regimi totalitari per affermare la propria superiorità, senza considerare una certa gay attitude fatta risalire ai costumi dell'antica Grecia. L'ultimo, invece, finisce nella pubblicità dei cappelli Borsalino o della poltrona Frau, persino sulla copertina di uno dei più celebri romanzi di fantascienza, L'uomo invisibile scritto da H.G. Wells nel 1881.
In mezzo c'è davvero di tutto (L'ultima cena di Leonardo, il David e La creazione di Michelangelo, American Gothic di Grant Wood...) e c'è, in particolare, la nostra propensione a servirci dell'arte nella vita quotidiana, il che non significa per forza banalizzarla ma semmai renderla più forte e incisiva, ed è questa la ragione per cui l'antico funziona meglio: più diretto ed efficace, meno snob ed elitario. «Se i miti nascono per spiegare la cultura e le abitudini di una società - chiosa Maurizio Cattelan - non so pensare a niente di più rappresentativo della nostra epoca della Creazione di Adamo di Michelangelo che ci saluta dello schermo ogni volta che accendiamo il cellulare».
Alcune di queste opere sono diventate autentici tormentoni, sorretti soprattutto da cinema, musica pop e pubblicità: la Venere di Milo e quella di Botticelli; La ragazza con l'orecchino di perla di Vermeer e la Maya Desnuda di Goya; la Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, ripresa addirittura dai Coldplay, e la Grande onda di Hokusai; il Pensatore di Rodin e l'Urlo di Munch, che passa dai Pink Floyd alla serie horror Scream; Nighthawks di Edward Hopper, vero e proprio manifesto per le creature della notte, fino all'immancabile Marilyn warholiana, ultimo esemplare di un'arte che ha sempre creduto nella potenza del messaggio.
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