È mancato a 91 anni Raimondo Luraghi, uno storico che ha onorato l'Università italiana nel mondo. Milanese di origine, è vissuto fin da ragazzo a Torino, frequentando l'Università sotto la guida di Piero Pieri. Si potrebbe definire con Montale «un lombardo-piemontese che ha subito preso la vita molto sul serio».
Luraghi fu partigiano combattente, promosso capitano sul campo e decorato di medaglia d'argento al Valor Militare in seguito a una ferita riportata in combattimento. Ufficiale del R. Esercito, combattè con i Garibaldini. Poi seguì ideali decisamente liberal-democratici fondati sulla distinzione netta tra politica e storiografia. Infatti non è stato uno studioso schierato. In un'intervista dichiarò senza ambiguità: «Quando la politica si infiltra nella storiografia è come un'iniezione di cianuro: finisce di ucciderla». Il suo valore di storico lo pone senza dubbio al livello dei Venturi, dei Romeo, dei de Felice. Il suo capolavoro è la Storia della guerra civile americana (uscita nel 1966, oggi un classico), un'opera che, per dirla con un maestro che Luraghi ha amato molto, Adolfo Omodeo, ci restituisce davvero «il senso della storia». Secondo il grande storico, che ha insegnato all'Università di Genova ed è stato per tanti anni visiting professor nelle principali università americane e canadesi, la guerra civile americana non può essere vista secondo una visione moralistica che divide sudisti e nordisti tra schiavisti e liberatori, ma va studiata come una vera rivoluzione nazionale. La figura di Lincoln viene infatti vista come il Cavour o il Bismarck degli Stati Uniti che nascono come nazione proprio da quella guerra terribile per numero di morti e di rovine. Con grande intuizione egli vede in quella guerra l'inizio della guerra moderna con le sue carneficine per l'uso di armi, legate al potenziale industriale americano, che modificherà radicalmente il modo di condurre le guerre, come rivelerà poco dopo la Grande Guerra.
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