Roma - Il governo escluse «fin dall’inizio» che i militari
italiani potessero ritirarsi dall’Afghanistan. Ma di che natura,
allora, sono state le «pressioni» di Romano Prodi sul presidente
afghano Karzai, affinché consentisse la liberazione dei cinque ostaggi
talebani in cambio di Daniele Mastrogiacomo e del suo interprete? È
stretto il crinale sul quale il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema,
deve passare nel suo intervento, ieri alla Camera. Ma il suo resoconto
«noioso» (ipse dixit) riesce a tenere il ministro in perfetto
equilibrio tra luci e ombre, tra riconoscimenti dichiarati e colpe
sottintese, per ciascuno dei protagonisti di un caso che ancora tiene
in apprensione il governo. Tanto che il ministro sarà costretto al
«bis» in Senato, martedì prossimo.
In effetti, la discussa
trattativa che ha portato a casa sano e salvo soltanto il giornalista
di Repubblica, provocando invece lo sgozzamento del suo interprete e
del suo autista, l’arresto dell’intermediario di Emergency e un
pericoloso riconoscimento politico dei tagliagole talebani, ha molti
tratti di vicenda «confusa e misteriosa». Comprensibile, visto il
teatro di guerra. Ma la polemica tra Unione e Cdl si riaccende
soprattutto sul «non detto» del ministro, appunto la natura delle
«pressioni» di Prodi a Karzai - secondo Fini spinte fino al ricatto
dell’abbandono dell’Afghanistan e con D’Alema e Parisi tenuti
all’oscuro da Prodi, secondo il forzista Pisanu. «Un’accusa priva di
qualsiasi sostegno, offensiva per il governo italiano e quello
afghano», replicherà D’Alema in Transatlantico a Fini, ritenendo
«sconcertante la mancanza di serietà di uno che è stato ministro degli
Esteri». Duro sarà anche il comunicato di Palazzo Chigi, nei confronti
di dichiarazioni «gratuite e offensive», non tollerabili in quanto
costruite su «fandonie spropositate», recita la nota di Prodi.
«Sorpreso, turbato e amareggiato», il premier, dal fatto che Fini e
Pisanu non abbiano tenuto in nessun conto l’appello di Berlusconi alla
compostezza. «Allibito per le dichiarazioni false, calunniose e
irresponsabili», si dirà il ministro della Difesa, Parisi.
Nessuno
dei «big» del governo e dell’Ulivo è stato però presente in aula,
durante l’esibizione di realismo dalemiano. Non Prodi, non Rutelli, non
Parisi, e neppure Fassino. La sua «alter ego», Marina Sereni, è stata
richiamata in gran fretta da un convegno, per rimpolpare i molti banchi
vuoti (anche nel campo dell’opposizione). D’Alema, in abito grigio, ha
così parlato per una mezz’oretta trincerandosi dietro un folto stuolo
di sottosegretari. Abile e minuzioso, ha sollecitato per i casi di
rapimento un «codice comune di comportamento» a livello Onu e Nato, e
raccomandato agli agenti in aree di crisi, giornali compresi, «maggior
senso di responsabilità», perché i rapimenti «comportano un costo e un
danno per l’intero Paese».
Nel merito della vicenda, il ministro
ha ribadito che il governo non poteva fare altro da ciò che ha fatto,
«in continuità» con i governi del passato e con la linea trattativista
sempre seguita dagli occidentali. Si era anche pensato a «un’azione di
forza», semmai fosse fallito il negoziato e i prigionieri fossero stati
trasferiti in Pakistan. Ma sia chiaro che è stato Prodi a gestire la
fase cruciale della trattativa con Karzai: quando la richiesta della
liberazione dei primi tre talebani è giunta ed è stata «trasferita al
governo afghano», considerato che «non pareva incontrare particolari
difficoltà da parte di Karzai, vista la pericolosità limitata dei
detenuti, due dei quali portavoce e non forze combattenti del movimento
talebano». In ogni caso, «la valutazione non la potevamo fare noi, ma
il governo afghano». L’accelerazione è arrivata il 18 marzo, dopo
l’uccisione dell’autista, quando è giunta la richiesta di liberare
altri tre detenuti e «si rischiava di innescare un pericoloso gioco al
rialzo».
Usare Emergency «era ragionevole», ha continuato D’Alema:
Gino Strada era l’unico intermediario possibile, con la sua «preziosa»
attività umanitaria che ora è «auspicabile possa riprendere». Inutile,
però, che oggi Strada pretenda la liberazione del suo intermediario
«accusato di reati» dal governo afghano. «Noi insisteremo perché
vengano rese note in modo trasparente le accuse e che venga giudicato
in modo rapido con tutte le garanzie: questo lo si può fare, non certo
liberarlo». «Incerti e confusi», sono invece rimasti i contorni della
liberazione e, poi, dell’uccisione dell’interprete: «Non abbiamo
elementi per poter chiarire la dinamica», ha ammesso il ministro.
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