Montecarlo - «Glam per un Punk». Non è il titolo di una canzone o di un film, ma il clima che si respirava martedì sera a Montecarlo, quando il jet set internazionale ha celebrato il talento trasgressivo di Damien Hirst. Quindici anni di opere da togliere il fiato, le migliori possibili da installare nelle sale del Museo Oceanografico, tra acquari, pesci, allestimenti navali, manoscritti e mappe.
Damien c’era, lui che si concede poco e mal volentieri alla mondanità. Bassetto e tarchiato, completo nero, camicia bianca senza cravatta, occhiale scuro alla Vasco Rossi, fintamente imbarazzato nel prendersi i complimenti, l’ex ragazzo terribile della yBa Generation non ha perso l’espressione scazzata di chi avverte di esser fuori posto, tra la famiglia reale monegasca e l’eleganza dandy di Lapo Elkann. «Se tutti ti dicono che sei un genio sei sulla buona strada per diventare un coglione», parole sue... Al gallerista Jay Jopling il compito di curarsi il collezionista Pinault e di fare gli onori di casa ai décolleté arditi delle signore. Lui, Damien, appoggiato a una colonna, sembra fregarsene di tutto questo clamore che ha il solo vantaggio di rimpinguarne il clamoroso conto in banca. Nell’animo è rimasto il periferico di Leeds che ha lavorato sodo per mantenersi gli studi al Goldsmith College, certamente più a suo agio con gli amici Flaming Lips che sul finire della serata si sono presentati sul palco per un concerto in suo onore.
«Sono fiero di me, i ragazzi mi adorano quando faccio il punk», dichiara nel suo Manuale per giovani artisti. Un punk capace di fare valanghe di soldi dopo averci fatto credere di essere trasgressivo. Se non fosse diventato un artista, Hirst avrebbe fatto concorrenza a Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, e all’ideologia dello «sporco lucro». Ogni qualvolta c’è da guadagnare, i quattro impostori scoperti da Malcolm McLaren e Vivienne Westwood non esitano a rimettersi insieme sul palco, nonostante si odino, riproponendo i vecchi successi di una brevissima stagione, sempre gli stessi, che pure hanno imparato a cantare meglio.
Genio o impostore? Talento assoluto o cialtrone? Sincero o cinico bugiardo? Sono interrogativi che da oltre trent’anni ci poniamo nei confronti di Rotten e da almeno venti in quelli di Hirst. Cosa sono la musica e l’arte, ricerca o sensazionalismo, gara a chi la spara più grossa o raffinata speculazione, sforzo di stupire sempre, choc garantito o riflessione innovativa? Certamente il leader dei Sex Pistols e il più famoso artista inglese, anche lui «scoperto» da un pubblicitario e lanciato come un prodotto predestinato al consenso, rappresentano la punta di diamante di un atteggiamento strafottente cui importa solo il successo, la fama, il denaro, collusi con i propri fans in adorazione. In una delle recenti reunion, Rotten insultò il pubblico delle prime file che gli sputava addosso, minacciando di interrompere il concerto se non avessero smesso immediatamente. «Sono diventato miliardario grazie ai vostri soldi del cazzo» era l’espressione più educata rivolta ai fans. E dovevate vedere, ieri al Paese dei Balocchi, l’aria del grande Damien davanti agli sguardi devoti delle signore, immaginando i suoi pensieri neanche troppo reconditi su tette e labbra siliconate.
Se gli fosse andata male, Hirst si sarebbe trovato in un dramma simile a quello di Paul «Gazza» Gascoigne, cui pure somiglia fisicamente. Una rockstar in mutande, uno che continua a prenderti per il culo anche quando il suo aspetto è quello di un barbone, ma uno che non piange in tv, non prega Dio e non idolatra il dittatore Castro, uno che non si sfonda di coca e poi pretende di insegnare ai bambini, uno che non fa il capopopolo contro l’America perché a lui, del popolo, interessa sempre e solo la parte femminile.
Quanto alla mostra, be’ è davvero splendida. Avendo ormai assodato che l’arte contemporanea è una colossale montatura inautentica e bugiarda, che almeno sia clamorosa ed evidente, non le puzzette dei nostri giovani concettuali. Damien è davvero il numero uno e nessuno come lui è in grado di meravigliarci così dopo vent’anni di squali in formaldeide, mucche tagliate, teste putrescenti e teschi di diamanti. «Cornucopia», ovvero corno dell’abbondanza, presenta sessanta lavori tra storici e nuovi nelle sale del Museo Oceanografico e alcuni all’aperto, tra cui la gigantesca The Virgin Mother, una scultura alta venti metri installata al Porto di Fontvieille.
Ad accoglierci, uno squalo fratello di quello da 15 milioni di dollari, l’opera che gli ha dato la giusta fama perché l’arte deve farci volare alto, si tratti di sogno o incubo. Con un gesto semplice, ma pressoché impossibile da realizzare, ci ha messo di fronte alla rappresentazione reale della morte, lo spettro dei nostri fantasmi quotidiani: anche il più temibile dei predatori finisce la propria corsa cristallizzato nel fluido avvolgente, mummificato ed eterno. In fondo le idee di Hirst sono molto semplici. Un incerto equilibrio tra vita e morte, l’ansia della fine, il tema della Vanitas come specchio esatto della condizione umana in cui non siamo più squali, ma farfalle dalle ali colorate che durano poco più di un giorno. «Sono ossessionato dalla morte, però credo sia una celebrazione della vita e non qualcosa di macabro. La morte non esiste senza la vita. Credo che la sola cosa che esista sia l’ossessione della morte, è un modo per celebrare la vita. Cerchi qualcosa che non trovi».
Oltre che sulle opere più note e clamorose, è necessario soffermarsi su altri lavori di grandissimo fascino come i Medicine Cabinets dalla struttura di scultura minimalista, ferrea e precisa, dei quali osserviamo però il contenuto, oggetti e strumenti che hanno a che fare con il corpo umano, atti a preservarne la salute o arrestarne il decadimento, panacee contro malattie e sofferenza. Colpisce rivedere The History of Pain del 1999, installazione di un pallone misteriosamente sospeso su affilate lame di coltello, metafora di un artista che ha deciso di correre sul filo tra la rappresentazione della tragedia e l’evanescenza del sé. Meravigliose le nuove, enormi, vetrine che mettono in fila ordinatamente frammenti di pietre preziose, specchi di luce potentissima. Fino a giungere a The Forgiveness, 3.502 farfalle e insetti collocati dentro una struttura in acciaio di oltre nove metri.
Spentesi le luci e il brilluccicare dell’inaugurazione, resta il maestoso silenzio del Museo Oceanografico (che festeggia il suo centenario) dove tutto è sovradimensionato. Gigantesco e defunto. Non credo esista al mondo un altro artista capace di uscire vincitore dal confronto con la mummificazione della storia.
Quando si incontra la bravura del talento assoluto e la cialtroneria dell’impostore il genio si rivela, ci dimentichiamo quanto sia brutta e inutile l’arte di oggi, e ci inchiniamo devoti. E se ci ha preso in giro va bene lo stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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