Cultura e Spettacoli

Delude la sorpresa Kitano: «Ma io cambio sempre film»

Il regista-attore che in «Takeshis’» si sdoppia tra sogni e psichiatria ammette: «In Giappone mi rinfacciano la violenza»

Maurizio Cabona

da Venezia

Kitano 8 e 1/2. Il film a sorpresa in concorso alla Mostra di Venezia, Takeshis’ («Dei Takeshi»), racconta i sogni di «Beat» Takeshi, pseudonimo col quale Kitano è diventato famoso in Giappone, e quelli di un Kitano rimasto oscuro. Naturalmente a interpretare i due personaggi è sempre lui, il vincitore della Mostra del ’97 con Hana-bi e del premio per la regia con Zatoichi nel 2003. Che non è un carattere facile. Si ricorda ancora la sua collera per non avere avuto una fila per sé e amici alla premiazione del ’97. E quest’anno Kitano ha imposto il silenzio sul film. Se ne parlava egualmente fin dai tempi del Festival di Cannes, in maggio. Dopo Federico Fellini, Jerry Lewis e Woody Allen, dunque un altro regista/attore si divide, cercando paradossalmente di ricomporre i frammenti di se stesso. E di ritrovarsi perfino fisicamente, se Kitano-il-tapino incontra Takeshi-il-divo per chiedergli umilmente l’autografo. Sembra facile... Ma la via della simultaneità esistenziale è più intellettuale che quella cronologica, di un «prima», sulla gavetta, e di un «dopo», sul successo. Comunque, film non di un intellettuale, ma di un intelligente, Takeshis’ regge le quasi due ore di dilemma fra «sono» e «sarei». Chi conosce il cinema di Kitano, troverà però che ha fatto di meglio; chi non lo conosce, non capirà.
Signor Kitano, ora è biondo come è il fallito del film.
«In Giappone ossigenarsi è di moda da tempo. Forse per pigrizia, non volendo mettere la parrucca, cercano di assumere così una personalità diversa».
Beat, il suo alter ego reale, nel film è bruno.
«Nel film però io interpreto Beat, non me stesso».
Allora siete in tre: lei, «Beat» e Kitano. Non c’è con voi anche il sergente Hara, che lei impersonava in Furyo?
«No».
Lo fa pensare il soldato giapponese - sempre lei - ucciso da uno americano in Takeshis’.
«Quell’immagine da film di guerra deriva dall’incubo più ricorrente quand’ero un bambino nel Giappone occupato».
Il suo film è una catena di sogni.
«La sfida per un regista è cambiare ogni film che fa».
Fellini ci provava coi sogni.
«E mi piaceva, ma non capivo la sua poetica triste».
Altro che non capisce?
«Il cinema di Jean-Luc Godard».
Quale capisce?
«Quello di Aki Kaurismäki. Girando, pensavo a lui».
L’uomo senza memoria di Kaurismäki è un lungo sogno...
Come ha pensato a un film onirico?
«Parlando con un neuropsichiatra su realtà e sogno».
Continui.
«Mi diceva che si sogna di essere assetati nel deserto, se si ha mangiato piccante».
Kurosawa non spiegava così il suo Sogni!
«Solo in Occidente mi si accosta a Kurosawa. Non in Giappone».
In Giappone che cosa le dicono?
«Mi rimproverano la violenza e di non descrivere bene le donne».
In Zatoichi i morti ammazzati, a centinaia, risorgevano. Idem in Takeshis’.
«Il cinema americano e la sua violenza hanno influenzato quello giapponese. Nella nostra tradizione, la morte per spada è più lunga e atroce che quella per pistola».
Dunque?
«Meglio la pistola. Si fa prima».
Non teme che le sparino o la pugnalino, come fa Kitano a Beat nel film?
«Lo farà la Yakuza, se ne parlo male all’estero».
Allora silenzio.
«Ma se ne parlo male in patria, il ridicolo li indebolirà».
Per la Yakuza Venezia è estero.
«Mi difenderò con la forchetta con cui nel film mangio spaghetti alla napoletana».
Quali sono?
«Quelli al pomodoro. Non è così?».
Che cosa farà dopo la Mostra e il Festival di Toronto, dove ri-presenterà il film?
«Cercherò idee per un altro film, meno difficile e più comico di questo».
Dove?
«Fra la pace e la bellezza delle donne».


Pace? Donne!?!
«E tutti rideranno di nuovo».

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