La denuncia: quei marinai invisibili prigionieri delle "navi morte"

Sono una dozzina le imbarcazioni abbandonate dagli armatori nei porti italiani. E dalle quali l’equipaggio non può scendere

La denuncia: quei marinai invisibili 
prigionieri delle "navi morte"

«Molti credono seriamente d’intendersi di navi, di marinai e di oceani, semplicemente per aver fatto, come passeggeri, qualche dozzina di viaggi. Ma un passeggero non apprende nulla del mare, della nave e dell’equipaggio. E nulla ne sanno neppure gli ufficiali e i cambusieri... La nave ama i marinai: i marinai sono i suoi veri amici; la puliscono, la lavano, la lisciano, l’accarezzano, la baciano; e queste cose essi le sentono nel profondo perché non sono ipocriti con la loro nave». La nave morta, di Bruno Traven.
«Invisibili». Li chiamano così perché è come se fossero diventati trasparenti. Uomini senza voce, senza diritti. Vivi, e tuttavia già un po’ morti. Esistenze di scarto, che la risacca della vita ha lasciato a orlare certi sudici arenili del mondo. Uno, un ucraino che aveva navigato per sei mesi, e gli otto successivi li aveva trascorsi agli ormeggi, a Genova, sempre senza stipendio, si sentì dire dalla moglie, al telefono, che si era messa con un altro. «Per tirare avanti la famiglia, per mettere insieme il pranzo con la cena per sé e le figlie, gli disse, pregandolo di non arrabbiarsi. Lui lì, impietrito, offeso, umiliato, muto». Così se lo ricorda don Giacomo Martino, direttore nazionale dell’Apostolato del Mare. «Un altro, anche lui ucraino - rammenta don Giacomo - decise un giorno di rinunciare alla prospettiva di essere pagato. Chiese di sbarcare: atto che agli occhi del proprio Paese, se c’è corrispondenza tra la bandiera della nave e la nazionalità del marinaio, può rivelarsi penalmente rilevante, perché configura l’abbandono di un pezzo di madrepatria in territorio straniero. Gli domandai il perché di quella scelta, così all’improvviso, dopo aver resistito tanto tempo. Mi disse solo poche parole: mia moglie sta morendo, e io voglio vederla un’ultima volta».
Marinai. Quasi sempre stranieri. Turchi, russi, ucraini, filippini. Gente senza passato, senza presente, senza un futuro. Sono 5 milioni i marittimi, italiani e stranieri, che transitano ogni anno nei 60 porti italiani. Gente che sta via di casa anche un anno di seguito, e magari scopre con due mesi di ritardo, come è successo a due dello Sri Lanka, che lo tsunami aveva spazzato il loro Paese. Degli «invisibili» però non parla mai nessuno.
Le loro silhouette fluttuano talvolta sui ponti di certe carrette del mare abbandonate, attraccate a banchine fuorivia, in quegli angoli opachi di porti di seconda classe dove galleggiano isole fatte di alghe morte, marcescenze nerastre, frantumi ricoperti di viscidume, sacchetti e bottiglie di plastica. In questo momento ce ne sono 12, in Italia, di «navi morte». Tre sono a Genova, altrettante a Ravenna, due ad Augusta e una rispettivamente a Pozzallo, Milazzo, Livorno e Civitavecchia. Bastimenti di tonnellaggio modesto, il più delle volte fermate dalle Capitanerie di porto perché prive dei requisiti indispensabili minimi per navigare in sicurezza. Allora, quando succede, gli armatori spariscono, giacché il costo delle riparazioni quasi sempre eccede il valore dello scafo. E quel pugno di vite a bordo? Abbandonate anch’esse, senza un velo di rimorso. Talvolta sono i marittimi, stanchi di promesse mai mantenute, di stipendi mai visti, che chiedono alle autorità portuali il sequestro della nave. All’inizio si pensa che sia una bagattella che si risolverà in poche settimane, qualche mese al massimo. Poi ci si accorge che sono passate stagioni, e se uno si mette lì a contare davvero le settimane e i mesi si accorge che sono già passati due anni. Giorno dopo giorno di questa non vita, calati in questa salamoia fatta di silenzio, di inutilità, di attesa ti fanno somigliare alla fine a un pacco senza indirizzo, a un cane senza padrone. Allora, il sentimento che ti invade è quello di una alienazione totale. Te ne vorresti andare, ma ti ricordano che il codice della navigazione dice che l’equipaggio è responsabile della nave, anche se gli armatori (per fallimenti, controversie legali, truffe andate a male) non pagano più per il gasolio e la cambusa. Trascini le giornate fumando, oziando, ciabattando fra la branda e il ponte, su una topaia galleggiante che arrugginisce a vista d’occhio, immerso in un tanfo che sa di piscio, gasolio, metallo, untume, cibo avariato, sudore stantio. Quando il gasolio finisce non va più il frigorifero, non c’è acqua calda nella doccia. Fine del cibo, dell’acqua potabile, fine delle comunicazioni con l’esterno. Impossibile avventurarsi in città, a meno che uno non voglia perdere, per ciò stesso, il diritto al credito che vanta con l’armatore, e non voglia correre il rischio di essere arrestato in flagranza di clandestinità. Dimenticati dalle proprie ambasciate, abbandonati da consoli cialtroni. Il cibo, l’acqua, qualche scheda telefonica, e magari qualche film in cassetta o una serata con un po’ di musica vengono dai volontari delle varie «Stella Maris» attive nei porti italiani.

Poi torna il silenzio, spezzato dai gemiti dei cavi d’ormeggio, se si alza vento, e dagli scricchiolii della vecchia carcassa. A vederlo dalla banchina sembra ancora un bastimento decente. Ma gli invisibili di bordo sanno benissimo che è ormai una nave morta.

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