Cultura e Spettacoli

«Il direttore? Un poveretto con il cappello in mano»

In un Teatro Dal Verme gremito ha inaugurato la sesta edizione della Milanesiana discutendo di filosofia e composizione con il professor Reale

Alberto Cantú

da Milano

Da Monaco, per un concerto con quella meraviglia che è l’Orchestra della Radio Bavarese, a Salisburgo dove dal 30 luglio dirigerà Il flauto magico di Mozart nel nuovo allestimento di Graham Vick. Dal «natio borgo selvaggio» (anzi sonnolento) che Mozart mai amò, a Milano per inaugurare la sesta edizione della «Milanesiana», tredici serate di cultura volute dalla Provincia.
Cittadino del mondo sulle ali del pentagramma, ieri Riccardo Muti era dunque al Teatro Dal Verme, gremito per l’occasione, «a dialogo» con Giovanni Reale, docente dell’Università del San Raffaele e fra i maggiori studiosi della filosofia antica. Tema, «La musica, La musa». Coordinatore di rango, Armando Torno.
In un certo senso la serata riprendeva e affermava i temi svolti da Reale nel suo recente L’arte di Riccardo Muti e la Musa platonica (Bompiani, 173 pagine, 8 Euro). Basta d’altronde leggere quanto è riportato sulla quarta di copertina del libro per capire il tenore del saggio. Dice Reale: «Senza ispirazione, senza “invasamento delle Muse”, nessun artista, per quante abilità abbia in serbo, risulta essere un vero artista». Appunto l’arte di Riccardo Muti: «Quella “divina mania”, quel “divino furore” che consente all’interprete ispirato di attingere l’assoluto».
Libro e incontro valgono così quale occasione per interpretare la lezione direttoriale del maestro intrecciandola, alla luce della filosofia platonica, con una meditazione sull’essenza della musica e sui legami fra l’arte e il divino. Quelli che non vengono meno nella straordinaria «conversazione-saggio» tra filosofo e musicista a completamento del saggio.
Quesito chiave per un interprete. Come avviene l’approccio con un nuovo componimento?
«Il mio approccio a una partitura che ancora non conosco, sia sinfonica, sia operistica, segue un cammino che forse all’inizio non ha niente a che fare con un procedimento logico ma segue un atto d’amore e di corteggiamento. Poggio la partitura sul pianoforte, chiusa, mentre sto studiando altre cose: lì c’è un’opera che attende di essere disvelata».
E quanto dura l’attesa?
«Può durare giorni, anche settimane. Sto studiando una partitura di Wagner e ne ho una di Bruckner che attende lì sul pianoforte. Un bel giorno, che non è calcolato a priori, accade che io vada improvvisamente al pianoforte e senta una necessità, come una vox clamantis che mi dice “aprimi!”. Non comincio ad analizzarla ma a leggerla, la sfoglio, la suono al pianoforte e così mi rendo conto di ciò che essa è. A questo primo incontro, se è risultato un “incontro d’amore corrisposto” (ci sono incontri possibili e impossibili, non dipende né dalla partitura né da me), se si crea un “rapporto d’amorosi sensi” allora procedo allo studio della forma, all’esame strutturale che richiede giorni e giorni. Poi passo all’indagine timbrica».
Quando arriva il momento dell’interpretazione?
«Mentre studio non mi pongo ancora questo problema però dentro di me il germe dell’interpretazione, proprio in conseguenza dell’analisi, sta “informandosi” ossia sta “prendendo forma”. Io non ne sono ancora cosciente però questo germe sta germogliando. Dopo un processo di decantazione - depongo la partitura - passo a lavorare ad altre cose ma dentro di me, nel frattempo, si è acceso un fuoco e il mio pensiero, sia pure in modo inconsapevole, continua ad arricchirsi di un elemento basilare di quella che sarà l’interpretazione. Quando la partitura è entrata in me come un démone, come il sangue nelle vene e nelle arterie, l “atto d’amore” iniziale diventa un “assalto amoroso”: busso alla porta dell’autore, devo espugnarla con violenza michelangiolesca. Batto i pugni perché mi risponda. Non corteggio più: chiedo».
Sempre più Riccardo Muti ama le lezioni-concerto. Anche a Ravenna, lunedì, ce ne sarà una, con l’Orchestra Cherubini, sulla Quinta sinfonia di Beethoven.
«Negli ultimi tempi prediligo molto le prove aperte in cui spiego al pubblico quello che sto facendo ed è fascinoso sentire il pubblico che diventa “con-celebrante” assieme ai musicisti».
Molti fantasticano sul direttore d’orchestra pensando ad un figura mattatoriale, imperiosa, dominatrice. È così?
«Posso rispondere ricordando una prova d’orchestra del mio grande, compianto amico Carlos Kleiber. Chiede al clarinetto: “Potrebbe suonare più piano?”. Lui, cinico, risponde: “Sto gia suonando piano”. E Carlos: “Mi scusi sa, non è vero che noi direttori d’orchestra siamo dei dominatori. In realtà siamo dei poveretti che cercano, chiedono... Io sono con un cappello in mano e chiedo: se mi dai due soldi, io sono contento...

ma se riesco a ottenerne tre sono ancora più contento!”».

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