da Roma
La scena di ieri nellaula di Montecitorio, e in diretta tv, con i deputati Pd immobili dopo lintervento di Tonino Di Pietro, e quelli di Italia dei Valori a braccia conserte dopo quello di Walter Veltroni, dà la rappresentazione plastica del gelo calato tra i due grandi alleati del 13 aprile.
Nessuno dei due per ora mette la pietra tombale definitiva sullalleanza, e - ad esempio - il Pd continua a sostenere Leoluca Orlando per la Vigilanza. Nella segreta speranza che a settembre sia il Pdl a toglierlo di mezzo, aprendo la strada alla Melandri o a Latorre, come suggeriscono i veltroniani più interessati alla pace con Massimo DAlema.
Ma di certo la deriva da avanspettacolo della kermesse di piazza Navona (deriva che prosegue fino a notevoli vette di ridicolo, con i vari Vip che il giorno dopo si dissociano da sé medesimi) è stata manna dal cielo per il leader Pd. Gli ha consentito di dimostrare quanto fosse giusta la sua scelta di dissociarsi dalla manifestazione, rompendo una lunga tradizione del centrosinistra. E gli ha offerto loccasione per smarcarsi da un alleato ormai scomodo. Le reazioni della stampa, anche di quei giornali (vedi Repubblica) che fino al giorno prima i veltroniani accusavano di «alimentare» il dipietrismo a spese del Pd, lo hanno confortato e rafforzato.
Ma quella di ieri, al di là di queste soddisfazioni veltroniane, ha finito per essere soprattutto la giornata di DAlema. Che negli ultimi giorni ha lavorato a riprendersi la scena dopo settimane in cui aveva lavorato dietro le quinte. Certo non lo ha fatto in contrapposizione esplicita a Veltroni, anzi. Ma si è mosso quanto meno da co-protagonista. E, paradossalmente, a dargli una mano è stato il Pdl. Prima unintervista al Foglio (titolata con tipica malizia ferrariana «La dottrina DAlema»), per spiegare che «il bipartitismo è finito», lillusione maggioritaria del Pd sepolta ed è ora di guardare a nuove alleanze e a un sistema non più fondato su «un presidenzialismo senza regole» ma su «una democrazia dei partiti» dove le alleanze (e i premier) si scelgono in Parlamento. Tedesco, insomma.
Poi lintervento (annunciato da un serrato tam tam dei suoi) in aula. Per stigmatizzare severamente Berlusconi e le sue scelte e chiedergli di «farsi processare», certo. Ma anche per lanciare un «appello ai riformisti» perché si esca da «uno scontro senza regole» e si dialoghi sulle riforme. E dal centrodestra è scattato lapplauso, con lazzurro Quagliariello a celebrare «i tratti di apertura e disponibilità» di DAlema, che dirà cose non tutte condivisibili ma almeno «ha una linea» (sottinteso, a differenza di Veltroni) e An a ribadire la stessa cosa: «Ho apprezzato il passaggio sulle riforme», dice Matteoli, «è DAlema che determina la linea del Pd». Tutti pazzi per Massimo?
Non proprio, in realtà. In casa Pdl si guarda con preoccupazione sia alla «fragilità» della leadership veltroniana, sia al lavorio di DAlema. Che con la storia del sistema tedesco (su cui il 14 luglio ha promosso un gran convegno con tutti i partiti) punta a dialogare con Casini, ma soprattutto a tentare la Lega, allontanandola dallorbita berlusconiana. E allora «è bene che a quel tavolo ci sediamo anche noi», spiega Quagliariello, proprio per bloccarne possibili derive. Di qui i complimenti a DAlema. «Ovviamente sono interessati a dividerci», dice il veltroniano Giorgio Tonini. Il quale ironizza apertamente su «tutto questo demenziale dibattito sulle alleanze» in voga nel Pd. «Mancano anni al voto, ed è surreale e anche un po umiliante questa ressa di capicorrente nellanticamera di Casini. Il quale nel frattempo vota praticamente con la maggioranza, e anche se volesse non potrebbe darci un bel nulla, perché il suo partito non mi pare daccordo. Per non parlare di Rifondazione, che nemmeno sappiamo se esiste ancora».
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