Poi dicono che nell’università italiana non si fa più ricerca. Macché: se ne inventano una al giorno. L’ultima è lo sciopero senza sciopero, l’agitazione con stipendio garantito. Geniale, da far morire d’invidia i Cobas più accaniti.
Martedì l’università di Pisa fermerà le lezioni per protestare contro il decreto Gelmini, ma nemmeno uno dei docenti ci rimetterà un euro in busta paga. Non è una novità: già in occasione della precedente mobilitazione dell’«Onda» studentesca diversi atenei avevano adottato l’ingegnoso sistema: invece di dichiarare uno sciopero, l’autorità dell’Università, nel caso specifico il Senato Accademico, dichiara la sospensione delle attività didattiche, spesso motivandola con una richiesta degli studenti. Come dire che, per permettere ai dipendenti di incrociare le braccia senza disturbi, l’azienda fa una serrata.
Si ottiene così un duplice risultato. Da una parte l’adesione allo stop è automaticamente del cento per cento, visto che è imposta dall’alto. Dall’altra, i docenti dribblano con eleganza la trattenuta sullo stipendio cui nessun’altra categoria sfugge. Anche perché quel sacrificio economico non è solo un accessorio del diritto di sciopero, ma ne è una parte sostanziale: è il contraltare al danno che si vuol procurare all’azienda. Ecco perché due anni fa, quando il Giornale denunciò questa pratica scoppiò una polemica infuocata. Chissà forse a Pisa pensavano che la cosa sarebbe passata inosservata, nel calderone delle proteste studentesche di questi giorni. O forse è il solito senso di impunità dei prof, categoria che non timbra il cartellino e non è sottoposta a controlli di presenza.
Così il Senato accademico dell’Università di Pisa ha liquidato la decisione in una delibera di una paginetta. Un atto politico, visto che nel documento si chiede «il ritiro del Ddl Gelmini» e si invita persino «quanti ricoprano cariche istituzionali a valutare come forma di dissenso anche la rimessione dei propri incarichi in caso di approvazione del Ddl». Dunque, subito una mattinata libera pagata per i prof, lasciare le poltrone poi, con calma, dopo attenta valutazione.
Tanto fervore ideale però non si traduce in una trasparente partecipazione all’agitazione. Si liquida invece lo stop alle lezioni come un fatto burocratico, «al fine di agevolare le iniziative di mobilitazione delle diverse componenti dell’ateneo». Poveri prof, costretti da forza maggiore a incrociare le braccia. Senza rimetterci un soldo, ovvio.
Una bella ipocrisia. Condita con un paradosso. La delibera del Senato «valuta negativamente l’introduzione del Fondo speciale per il merito e del prestito d’onore, e la conseguente trasformazione del diritto allo studio in diritto all’indebitamento». Vade retro merito.
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