Milano - Di certo non se l’aspettava nessuno. Perciò non è passato inosservato l’annuncio che Francesco De Gregori sarà ospite in una delle prossime puntate di X Factor. Sul web, in tutta quella infinita sequela di siti e blog che commentano le notizie, c’è chi si è stupito, chi ha nostalgicamente sacramentato, chi invece si è rassegnato all’inevitabile ticchiettìo del tempo. E senza dubbio De Gregori, il Principe da quarant’anni maestro di parole austere e poetiche, che sale sul palco dove sono sbocciate Giusy Ferreri o Noemi è il segno più clamoroso di una nuova fase dei cantautori. Chiamiamola, se volete, riflusso. Oppure diaspora. Oppure rifondazione. I cantautori come per decenni li ha riconosciuti l’immaginario collettivo, quel plotone di artisti vocati alle canzoni e compatti anche nei loro orientamenti sociali e comportamentali (la politica è motore dell’arte, abbasso la tv, niente paillettes), non esistono più. Sono rimasti nel passato, dove peraltro ancora molti li cercano. Loro ormai sono diversi e basta darci un’occhiata per accorgersene. Altre strade, altre ispirazioni, addirittura conversioni. Di De Gregori s’è detto: continua il suo pellegrinaggio concertistico alla Bob Dylan, cui spesso è avvicinato, suonando ovunque, anche nelle piazze periferiche e in contesti una volta impensabili (lo conferma il titolo di qualche giorno fa della Gazzetta di Parma: «Il re dei salumi “vuole” il principe dei cantautori» riferito ai concerti del festival del Prosciutto). Produce, De Gregori, album di vendite alterne, appesi a metriche anche sublimi eppure sempre meno citate.
E Francesco Guccini, quello che l’anno scorso, come anche Antonello Venditti, ha benedetto X Factor? Scrittore talentuoso da oltre vent’anni, si alterna tra i pugni che si chiudono quando ai concerti canta quel famoso «trionfi la giustizia proletaria!» della Locomotiva e le interviste in cui spiega che comprò l’eskimo solo perché proteggeva dal freddo, facendo inorridire anche Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere («oggi c’è il tradimento dei cantautori»). L’impressione è che, finito il propellente ideologico politico che giocoforza aveva carburato una gioiosa macchina da guerra discografica e opinionistica, ciascuno dei cantautori storici ora segua il proprio percorso solitario e puro che talvolta li espone a compromessi da saltimbanco (il famoso «non ho mai letto Marx e Marcuse» sempre di Guccini) ma spesso li porta fino a frontiere egregie e nuovamente godibili. Prendiamo Lucio Dalla, per esempio. Onnivoro e inarrestabile, forse il più lucido di tutti i cantautori in questa fase, mescola la passione per il jazz con l’opera lirica; non si fa scrupoli a far comparsate tv di ogni tipo con la leggerezza necessaria; diventa regista della Tosca di cui modifica pure una parte del libretto; porta in scena L’Opera del mendicante di John Gay. E scrive addirittura quell’inno ufficiale degli italiani alle Olimpiadi di Pechino che già nel titolo, Un uomo solo può vincere il mondo, è già una piccola, magari inconsapevole, negazione di quei versi che in Com’è profondo il mare dipingevano esattamente il collettivismo del 1977: «Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche / il pensiero è come l'oceano / non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare». Poi c’è chi, come Enzo Jannacci, negli anni è passato da un nichilismo poetico e utopistico e qualche volta gozzoviglioso, all’innamoramento vendicativo per Gesù «che oggi ci prenderebbe a sberle». Ben più inquieto Roberto Vecchioni, ultimamente più fertile come scrittore che come autore di canzoni. La forsennata cavalcata della sua Samarcanda del 1977 non ha solo dato il titolo a un programma di Santoro ma era anche un elogio quasi stoico dell’inevitabilità del destino (Seneca diceva: il fato guida chi lo segue, trascina chi recalcitra). Facile intuire a quale destino politico alludesse. Oggi Vecchioni ha scoperto la preghiera, si è avvicinato a Dio, riconosce addirittura l’onestà della destra e dice che «il sei politico è stato un orrore». Roba che se l’avesse detta trent’anni figurarsi dove finiva il consenso degli intellettuali di cui ha sempre goduto.
Come passa il tempo. Insomma, quella dei cantautori è una rinascita impensabile ma inevitabile che forse trova le sue ragioni in quel verso di Giorgio Gaber, coraggioso perché doloroso e persino implacabile: «La mia generazione ha perso».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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