Partendo dall’innovativo principio di considerare la salute alla stregua di un’auto e di equiparare il tamponamento maldestro delle ferite a quello dei paraurti, l’avvocato Matteo Mion avrebbe messo a punto una soluzione per i contenziosi con i medici: la constatazione amichevole. Come negli incidenti stradali. Una bella firma per riconoscere il danno arrecato e la pratica passerebbe all’assicurazione. Purtroppo per lui, la proposta giunge dalla parte sbagliata: «I dottori mi considerano un avvoltoio, un cacciatore di teste. Credono che io voglia a tutti i costi rovinargli la reputazione e mandarli in galera. Non è così». Infatti. Il giovane legale di Padova punta solo all’indennizzo, cioè ai quattrini. Per i suoi clienti, si capisce. Ma va’ a spiegarlo ai camici bianchi, abituati a ritrovarselo di fronte nelle aule di giustizia, col coltello fra i denti, da almeno 15 anni.
Oggi di anni ne ha 35. Ne aveva appena 20 quando, ancora studente di giurisprudenza, aprì un’agenzia di assistenza per i pazienti vittime dei medici che escono dagli stop senza guardare, mettono nei corpi i ricambi sbagliati, si dimenticano di avvitare i manicotti. Scelse una collocazione strategica: via Ospedale civile, al numero 89, proprio davanti al nosocomio della sua città. Allo stesso indirizzo era domiciliata l’Associazione europea di tutela della persona, sempre lui. Nonché la Tep (Tutela europea della persona), sempre lui. Tentacolare. Non contento, nel tempo libero girava per Asl e Ulss del Veneto, tappezzandole di adesivi: «Hai subìto danni da malasanità, malaestetica, incidente stradale, infortunio sul lavoro?». Seguiva numero verde.
Insomma, un talento precoce. E anche un pioniere in questo ramo della civilistica, per il quale s’è speso con interventi sulla stampa locale (Il Mattino di Padova) e nazionale (Il Giornale, Libero). Non v’è da stupirsi che i clinici d’ogni parte d’Italia emettano fumo dalle froge al solo sentirlo nominare. Figlio d’arte: il padre Francesco, avvocato da 44 anni, fu il primo nel nostro Paese a specializzarsi nel trascinare in giudizio gli ospedali per i loro sbagli o le loro negligenze. Mion senior cominciò alla grande, sbancando l’Ulss 9 di Treviso all’inizio degli anni Settanta: 800 milioni di lire, grosso modo 5 milioni di euro con la rivalutazione, per una paralisi del plesso brachiale, trauma da parto che impedisce la normale crescita del braccio. Il figlio ha presto superato il padre: questa settimana, per esempio, s’è dedicato a una pirotecnica richiesta di risarcimento a favore di una gestante veneta che, per uno scambio di provette, è stata fecondata artificialmente col seme di un altro uomo anziché con quello del marito e ora si ritrova ad aspettare un figlio da uno sconosciuto.
Mion junior è presidente di Omega (Osservatorio medico giuridico assicurativo), acronimo depositato con straordinario tempismo all’Ufficio del registro il giorno successivo all’entrata in vigore del decreto Bersani, nel luglio 2006. Fino a tre anni fa gli avvocati non potevano consorziarsi con altri professionisti - adesso invece Mion è affiancato dal dottor Andrea Failoni, medico legale di Omega - e dovevano attenersi al tariffario minimo del loro Ordine. Col decreto sulle liberalizzazioni, è stato introdotto il cosiddetto patto in quota lite. In sostanza il paziente che si ritenga vittima di malpractice non paga alcuna parcella all’avvocato da cui si fa assistere. Solo alla fine del processo, o a seguito di un accordo stragiudiziale, devolve al legale una percentuale del risarcimento incassato dall’ospedale. Se perde la causa, non ci rimette neppure un euro.
Mi pare uno sprone alla lite temeraria.
«Non direi. Su 100 persone che entrano da quella porta, persuase d’essere vittime della malasanità, 50 le rispediamo a casa dopo averle convinte che i medici hanno fatto il loro dovere al meglio».
Ma nell’altra metà dei casi picchia duro.
«Sgombriamo il campo da un equivoco: non c’è da parte mia alcun accanimento. Ho sempre gestito le vicende di malasanità in modo morbido, sgravando i medici dal punto di vista penalistico. Solo che i camici bianchi, digiuni di nozioni giuridiche, scambiano per una querela la semplice notifica di un’istanza di conciliazione. Perciò mi odiano. Dovrebbero odiare le assicurazioni che non pagano, che si rifiutano di conciliare, che negano i fatti a prescindere, scaricando ogni responsabilità proprio sui medici. Sarebbe tutto molto più semplice se chi sbaglia riconoscesse l’errore. Invece esistono contratti assicurativi che impongono addirittura al medico di non ammettere mai i danni provocati al paziente».
E lei di danni ne vede parecchi.
«Vedo storie di disperazione veramente drammatiche, in ogni parte d’Italia. Bambino di Savona: in ospedale non si accorgono che ha una gastroenterite, finisce soffocato dal suo stesso vomito; anossia cerebrale, invalido a vita all’80%. Neonato di Trieste: trascurano una tonsillite, l’infezione occlude le vie respiratorie, anche qui non arriva l’ossigeno al cervello; danni irreversibili, ridotto a un vegetale, invalido al 100%. Uomo trentenne di Verona: nel 1998 è colto da dolori addominali, gli diagnosticano una stasi fecale e gli prescrivono l’olio di ricino per andare di corpo, senza notare un tumore al colon lungo 30 centimetri; cinque anni appresso ha metastasi al fegato, muore dieci minuti dopo essere stato visitato dai consulenti tecnici d’ufficio nominati dal tribunale, lasciando moglie e due figli piccoli».
Non ho capito se sono le vittime della malasanità a cercare lei o viceversa.
«Omega è in connessione con medici legali di tutta Italia, attraverso Intranet possiamo spostare una cartella clinica da Palermo a Roma ed esaminarla all’istante. Poi magari incappi nell’ordinanza del tribunale di Rieti che rinvia l’udienza di tre mesi ingiungendoci di presentare il cartaceo. Come se negli ospedali le cartelle cliniche non viaggiassero già su Cd-rom in base alle disposizioni del ministro Renato Brunetta».
Non c’è il rischio che i referti su supporto informatico vengano contraffatti?
«Più di quanto non accada già oggi su carta? Difficile. Sono le controparti a manomettere le cartelle cliniche, riempendo a proprio favore gli spazi vuoti, vedi il caso del tossicomane Stefano Cucchi. Anche perché i documenti li hanno in mano loro, mica noi. Sapesse quante volte capita che gli originali delle cartelle cliniche esibite in tribunale siano diversi dalle fotocopie in possesso dei pazienti. La famosa medicina difensiva...».
Pensavo che i magistrati avessero un occhio di riguardo per i maltrattati dalla classe medica, non che rinviassero i processi per mancanza di fotocopie.
«Noi i giudici li incontriamo a palazzo quando sono in calendario le udienze. Ma gli altri giorni chi li vede? Sa, non sono tutti bravi come quelli della Procura di Milano, che per i processi a Silvio Berlusconi sgobbano 24 ore su 24. I più stanno in ufficio sì e no mezza giornata. Dicono che si portano il lavoro a casa, che stendono le sentenze di pomeriggio, dopo essersi messi in pantofole. Be’, si vede... A mio padre ne è capitata una nella quale una madre, che chiedeva i danni per il figlio quattordicenne ferito con lei in un incidente stradale, è stata condannata a risarcire in solido col ragazzino l’automobilista che li aveva investiti».
Nel tragitto dall’ufficio a casa il giudice si sarà dimenticato le parti nel processo.
«Non tocchiamo il tasto delle parti. Un mio collega di Porto San Giorgio s’è visto respingere la chiamata del terzo, cioè della compagnia assicurativa, perché a parere del giudice non era il terzo bensì il quarto».
Cos’è? Una barzelletta?
«No. Il giudice ignorava che l’assicurazione è terza rispetto al processo. Essendo già in ballo tre parti, per lui diventava la quarta, quindi non l’ha ammessa. Un film di Totò».
Mi par di capire che il suo rapporto con le toghe sia conflittuale.
«Tribunale in provincia di Treviso. Discuto col magistrato la domanda risarcitoria fondata sulla responsabilità contrattuale che l’ente ospedaliero assume verso il paziente ogni qualvolta lo ricovera, lo visita o lo opera, secondo l’ormai consolidato indirizzo della Cassazione. Mi congratulo con me stesso: eloquio appassionato, esposizione chiara, riferimenti pertinenti alle sentenze in materia. La parola passa al giudice, che in stretto dialetto veneto mi dice: “Responsabilità contratuae? Cosa sea, ciò? Mi no’ go tempo da perdare, avocato, femo presto che go tante udiense...”».
Lei sostiene che tra le 15.000 e le 30.000 persone muoiono ogni anno in ospedale a causa di errori medici o infezioni.
«Non io, l’Associazione italiana oncologia medica».
Arriva tardi. Il suo conterraneo Francesco Petrarca scriveva sei secoli fa: «È privilegio esclusivo dei medici uccidere un uomo e restare impuniti».
«Nel 1300 era accettabile che i cerusici sbagliassero. Ma oggi, con tutti i mezzi diagnostici e i farmaci che hanno a disposizione? Eppure si stima in 320.000 il numero di coloro che ogni anno vengono danneggiati da pratiche mediche. Le sviste dei camici bianchi ci costano 10 miliardi di euro all’anno, pari all’1% del Pil».
E allora com’è che la sanità italiana progredisce costantemente nell’Euro health consumer index, posizionandosi per il 2009 al 15° posto su 33 Paesi, con 671 punti su un potenziale teorico di 1.000?
«Non confondiamo le manchevolezze personali con la struttura. Anch’io ritengo che la nostra sanità sia buona. Ma so anche che sbagliare è umano. Quindi va cambiata la legge. Fatta salva la colpa grave, bisogna assolutamente depenalizzare gli errori dei medici e istituire la responsabilità civile obbligatoria. Oggi invece i camici bianchi fanno il gioco delle assicurazioni, le quali per principio negano e non pagano. Al punto tale che la morte sembra diventata una complicanza della vita».
Questa non è male.
«Non saprei come altro definire l’obiezione che un assicuratore ha opposto alla mia richiesta di conciliazione per un paziente oncologico di Napoli deceduto perché il chirurgo, durante l’intervento per rimuovere il tumore che gli avvolgeva la spina dorsale, gli aveva lesionato il midollo osseo: “Tanto sarebbe morto comunque”. Eppure una sentenza della Cassazione, la numero 4.400 del 2004, stabilisce che qualora l’intervento del medico porti a una “perdita di chance” in termini di guarigione o di sopravvivenza, il malato va risarcito civilmente».
L’80% dei chirurghi nel corso della carriera viene coinvolto in un’azione penale e passa un terzo della propria vita professionale sotto processo. Dopodiché l’80% dei procedimenti giudiziari si conclude con un’assoluzione. Sono dati spaventosi. I chirurghi presto si rifiuteranno, con tutte le ragioni, di operare.
«Ma questi dati non fanno altro che confermare la bontà della mia linea: bisogna evitare i procedimenti penali contro i medici e istituire la constatazione amichevole del danno col relativo risarcimento».
Grazie al vostro assedio - 150.000 denunce l’anno - siamo al paradosso per cui 4 errori su 10 sono causati dal mancato intervento del medico, che nel timore di finire sotto processo non fa nulla e abbandona il malato al suo destino.
«Sì, ma allora parliamo anche di quell’infinità di cittadini che per paura di ritorsioni dei camici bianchi non agiscono contro chi gli ha ucciso un parente o gli ha rovinato la salute in modo irreparabile».
Resta il fatto che le denunce sono aumentate del 184% in un decennio. O abbiamo allevato una generazione di medici asini oppure una generazione di avvocati famelici.
«Be’, molti dottori sono figli del Sessantotto, questo è un fatto. Inoltre nell’ultimo decennio è aumentata, e di molto, la consapevolezza dei cittadini sui temi sanitari. Fra Tv e Internet, oggi è molto più difficile raccontargli quella dell’orso».
Ma lei vince sempre?
«Nel 75% dei casi. Sono persino riuscito a far condannare il ministero della Giustizia per la morte di F.M., un tossicodipendente di Rovigo, in terapia col metadone, ucciso da un’overdose mentre era in prigione. Che il cittadino venga preso in carico dall’ospedale o dal carcere, la responsabilità civile non cambia».
Qual è il risarcimento più alto che ha chiesto fino a oggi?
«Sei milioni di euro all’ospedale pediatrico Burlo Garofolo di Trieste per un bimbo di due anni e mezzo che dal dicembre 2007 versa in stato vegetativo, non parla, non si muove, non reagisce agli stimoli».
Ma gli indennizzi alla fin fine li paga la collettività, quindi anche lei.
«Com’è giusto che sia. Provi, se ci riesce, a trovare le parole giuste per un’anziana di Pordenone invalida civile dopo aver contratto un’infezione in ospedale, che a malapena si regge in piedi con le stampelle, costretta a vivere con 250 euro al mese di pensione, le cui richieste sono state respinte. Qui non si tratta di gente che ci marcia. Sto parlando di morti viventi».
E alle innumerevoli vittime di voi avvocati chi ci pensa?
«Sbaglio anch’io, certo. Infatti ho stipulato una polizza contro i miei errori, che vanno dalle decadenze dei termini alle errate notifiche. Pago 1.500 euro l’anno di assicurazione. I medici facciano altrettanto».
Ha mai avuto bisogno del chirurgo?
«No. Non saprei a chi rivolgermi. Quando capiterà, sarò costretto ad andare in Svizzera o in Austria».
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