Nelle scorse settimane diversi esponenti politici di sinistra e del Movimento Cinque Stelle hanno criticato la decisione di avviare il graduale superamento del blocco dei licenziamenti, paventando una catastrofe occupazionale nel momento in cui l'esecutivo guidato da Mario Draghi avesse deciso di metterlo in campo. Ebbene, i dati sull'occupazione nel mese di luglio, primo con la fase del nuovo regime di gestione delle uscite dalle aziende, smentiscono queste preoccupazioni.
A maggio Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, preventivava che potessero essere messi a rischio mezzo milione di posti di lavoro, e note e ripetute sono state le avvertenze del collega della Cgil, Maurizio Landini, sulle possibili conseguenze della rimozione del blocco. Ebbene, a luglio tale effetto non c'è stato. I dati sull'occupazione parlano chiaro: i lavoratori dipendenti sono saliti di 24mila unità e, anzi, il problema principale appare quello degli autonomi e delle partite Iva, 47mila dei quali hanno cessato la loro attività. Nel contesto del lavoro dipendente, sottolinea La Voce, questo si inserisce in un trend di continuità: "al 30 giugno 2021 i posti di lavoro, rispetto al 30 giugno 2020, risultano aumentati di 568 mila unità: ciò è frutto della continua dinamica positiva dei posti a tempo indeterminato (+250 mila) e del fortissimo recupero dei tempi determinati (+358 mila), particolarmente accentuato tra maggio e giugno".
Il blocco dei licenziamenti è stata una misura necessaria nella fase iniziale della pandemia, assieme alla cassa integrazione in deroga, per evitare a molte imprese di andare a schiantarsi contro le misure di contenimento del Covid-19 e le loro conseguenze economiche e per garantire sicurezza ai lavoratori, ma è un errore di prospettiva quello compiuto da sinistra e M5S nel collegare le dinamiche del blocco dei licenziamenti a quelle di un sistema economico in "rimbalzo" dopo la distruzione di ricchezza avvenuta nel 2020. Errore esemplificato dalle dichiarazioni dell'ex ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, che parlando con Il Fatto Quotidiano ha dichiarato necessario subordinare la riforma degli ammortizzatori sociali al mantenimento in opera del blocco, confondendo una riforma strutturale con una politica emergenziale.
La realtà dei fatti è che a decidere dell'occupazione e delle sue dinamiche, a un anno e mezzo da inizio pandemia, sono due scelte: quelle legate alla campagna vaccinale, e alle conseguenti riaperture post-pandemiche, e quelle di politica economica volte a creare strategie per lo sviluppo e a focalizzarsi sul lungo periodo. Il combinato disposto di queste due misure permette a governo e imprese di guardare oltre e andare avanti in prospettiva con l'obiettivo della crescita, evitando che si crei la vera questione potenzialmente in grado di frenare la ripresa: una crisi produttiva contrassegnata da una moria di imprese. Il blocco dei licenziamenti, in questo calcolo, non è nè dannoso nè utile, ma semplicemente indifferente: le risposte programmatiche alla crisi che anche il governo Draghi ha fatto proprie accettando la linea del premier, non a caso, sono state avviate dalla razionalizzazione dei sussidi per tenere in vita le aziende che potranno sperare di riprendersi, dopo la pandemia e dal parallelo tentativo di tutelare i lavoratori che fatalmente perderanno il lavoro permettendo loro un rapido reinserimento nel sistema. Ridurre l'esposizione debitoria delle imprese, tenerle in vita, consentirle di operare al meglio difende i lavoratori a livello sistemico. E non è un caso che i casi denunciati come abuso del diritto di tornare a licenziare siano stati piuttosto connessi alla manifestazione di crisi industriali legate a società decotte.
Nessuno nega che la rottura improvvisa del tavolo su Whirpool, i licenziamenti collettivi avvenuti per mail alla Gkn di Firenze (422 persone), per WhatsApp alla Logista di Bologna (90 dipendenti) o a bruciapelo alla monzese Gianetti abbiano rappresentato casi deplorevoli in cui si è dimostrata l'ineleganza e l'attitudine cinica di un management poco avulso a rispettare i doveri di buona creanza e trasparenza verso i lavoratori. Ma prima ancora del blocco dei licenziamenti, come sostenuto da Enrico Letta, a causare questi esuberi di massa è stata l'irrimediabilità di certe crisi, la natura di "imprese zombie" di diversi stabilimenti o centri produttivi, il lungo disinteresse della politica, dei sindacati e dei vertici economici per strategie che proponessero un percorso di evoluzione delle competenze e di transizione tra settori dei lavoratori svantaggiait. Aggiungiamo il deserto della politica industriale lasciato da chi (sinistra e Cinque Stelle) ha negli ultimi anni occupato il Ministero dello Sviluppo Economico e gli innumerevoli tavoli industriali che l'attuale ministro Giancarlo Giorgetti ha dovuto gestire dal suo insediamento in avanti e si avrà un quadro in cui il blocco dei licenziamenti appare misura addirittura accessoria.
Il dito, non la luna guardato da chi ha contribuito a creare problemi politici e lasciato, alla fine del governo Conte II, una vera e propria Spoon River economica alle sue spalle fatta di ristori inefficaci, disoccupazione in crescita, assenza di politiche industriali e un Recovery Plan tutto da scrivere. Il blocco dei licenziamenti è apparso, troppo a lungo, come l'alibi dietro cui rifugiarsi per coprire errori e mancanze. Ma alla lunga, in politica, la realtà dei fatti viene a galla.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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