Si gioca sui mercati esteri la sfida del vino italiano: un settore che, a livello di filiera allargata, vale 50 miliardi di euro, con oltre 340mila imprese che danno lavoro a 1,2 milioni di persone. Dal 7 al 10 aprile sarà protagonista al Vinitaly di Verona: al presidente di Federvini, Lamberto Vallarino Gancia, chiediamo di tracciare lo scenario.
Partiamo dall'Italia: la gelata dei consumi ha colpito anche il vino?
«Il calo c'è, ma non è di oggi: in vent'anni i consumi nel nostro Paese si sono praticamente dimezzati. In realtà, ad essere cambiato è il modo di considerare il vino: non più un alimento ma un piacere, il che significa che si beve meno ma meglio che in passato. Il valore compensa dunque la quantità, come del resto avviene anche a livello internazionale. E questo ci ha consentito di non risentire troppo di una vendemmia come quella del 2012, scarsa ma buona».
E per quanto riguarda il mercato in generale?
«I Paesi emergenti (Canada, Brasile e Cina) compensano il calo dei mercati storici. A livello mondiale, i consumi di vino sono infatti in aumento. Con grande soddisfazione delle nostre imprese: nel 2012 l'Italia ha esportato vini e mosti per un valore pari a 4 miliardi e 800 milioni di euro, in aumento del 6,6% rispetto al 2011».
A proposito di Paesi emergenti: i dazi troppo pesanti non incidono sull'export?
«È un problema che stiamo affrontando a livello europeo: così come il nodo dell'eccessiva burocrazia dei controlli sulla sicurezza alimentare. Attualmente ci sono 22 organismi di controllo solamente per le aziende vinicole, che grazie ai sistemi informatici si potrebbero alleggerire».
Parliamo di accordi a livello europeo, ma non ci sono problemi interni di concorrenza tra Stati produttori, ad esempio con la Francia?
«L'accordo tra gli Stati membri c'è, certo il mercato lo fanno le imprese, quindi la concorrenza esiste: il vino italiano ha dalla sua un buon rapporto qualità-prezzo e una grande tradizione storica, confermata dalle denominazioni controllate, presenti praticamente in tutte le regioni. In Italia esistono 525 tra Doc (Denominazione di origine controllata), Docg (controllata e garantita) e Igt(Indicazione geografica tipica), e ognuna di queste ha un disciplinare di protezione del territorio».
Quindi la famosa rivalità spumante-champagne non ha più ragion d'essere?
«In realtà c'è posto per tutti. Lo champagne ha successo a livello internazionale, ma su una fascia molto alta. Lo spumante al contrario ha una base di consumo molto più larga, anche in occasioni meno legate alla festività, come la moda dell'aperitivo. Infatti la vendita degli spumanti l'anno scorso è aumentata del 12% rispetto al 2011».
Quali sono le strategie per il futuro?
«Migliorare i nostri punti di forza: quindi puntare sulla qualità della produzione e sulle tipicità dei territori, da far scoprire al consumatore. Adesso, ad esempio, sto lavorando a un progetto con il consorzio dell'Alta Langa».
Ma non si rischia di disperdere energie tra troppe piccole realtà?
«Il settore conta oltre 300mila imprese, è vero, ma questo è il Dna dell'Italia. E non è detto che la piccola dimensione sia un male: ci sono esempi di eccellenti marchi di nicchia, che arrivano alla notorietà. Chiaro che le sinergie tra imprese devono essere sfruttate al meglio».
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