Lo shale oil si rimette in piedi e l'Opec perde la battaglia

Dato per spacciato a inizio 2016, ora estrae 5 milioni di barili al giorno grazie a costi tagliati e meno debiti

Lo shale oil si rimette in piedi e l'Opec perde la battaglia

All'inizio della scorso anno l'industria Usa dello shale oil sembrava avviata a un tramonto inglorioso, tra bancarotte, ricorsi all'amministrazione controllata, licenziamenti di massa, casse vuote e una montagna di debiti. Non più miracolo su cui costruire l'indipendenza energetica americana, quel petrolio estratto dalle sabbie bituminose si era trasformato in un incubo. L'Opec poteva cantar vittoria: la strategia basata sui mancati tagli alla produzione, e dunque sul crollo dei prezzi del greggio, aveva messo in ginocchio buona parte dei pozzi a stelle e strisce a causa degli alti costi di estrazione, di quel punto di pareggio attorno agli 80 dollari. La riduzione di 1,8 milioni di barili al giorno concordata lo scorso novembre, è la prova che l'Opec considerasse ormai il petrolio statunitense sepolto sotto le sue sabbie. Game over.

Non è proprio così. Anzi: i Signori del petrolio potrebbero aver fatto i conti senza l'oste. Gli ultimi dati diffusi dall'Agenzia internazionale dell'energia sono eloquenti: la produzione di shale oil dovrebbe toccare il prossimo mese di aprile un picco di 5 milioni di barili al giorno, il livello più alto da un anno a questa parte. La cifra è il segno di una ritrovata vitalità e, soprattutto, pare in grado di compensare il buco produttivo creato dai quasi due milioni di barili sottratti al mercato. Per l'Opec, da sempre convinta di poter determinare la scena energetica attraverso le sue politiche, è un autentico schiaffo. Ma come è stata possibile questa, almeno all'apparenza, impossibile resurrezione? È successo che chi è riuscito a stare in piedi nella tempesta ha fatto di necessità virtù. Agendo sui costi, studiando con più accuratezza la struttura dei terreni, migliorando l'efficienza dei pozzi grazie allo sfruttamento delle nuove tecnologie; inoltre, il periodo dello spese folle finanziate per mezzo dell'indebitamento è finito e le esigenze vengono coperte dalla liquidità a disposizione. Tutto ciò si è tradotto nel raggiungimento del picco produttivo in 6-9 mesi e in un radicale abbattimento del break even. Goldman Sachs stima che il punto di pareggio sia oggi attorno ai 50-55 dollari il barile, un range che ha rimesso in gioco lo shale Usa sullo scacchiere energetico mondiale.

A questo punto, il Cartello può provare di nuovo a strangolare i pozzi Usa inondando i mercati di oro nero, in modo da far precipitare le quotazioni, pagandone però le conseguenza sotto forma di una strozzatura degli introiti.

Un lusso che le casse esauste dell'Arabia Saudita e di altri Paesi produttori non possono permettersi. E anche tagliando ulteriormente l'output, l'Opec farebbe sì salire i prezzi, ma aumenterebbe anche l'appetibilità del petrolio da scisto perdendo quote di mercato. In pratica, un dilemma irrisolvibile.

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