Milano - Nelle fotografie di Gianni Berengo Gardin c’è il lento camminare dell’uomo verso il proprio destino. Il bianco e nero riempie gli spazi e dà vivacità a volti nei quali s’imprime il solco del vivere quotidiano. Nel 1963 il grande maestro della fotografia italiana impresse uno scatto – non lontano da Siena – che racchiude l’essenza del mutamento. Una strada bianca s’inerpica nella campagna toscana. Pochi alberi ne seguono il tracciato. Un uomo e una donna camminano verso l’orizzonte. A riguardarla dopo trentacinque anni, Berengo Gardin riesce ancora a emozionarsi. "E’ come rivedere un figlio", ammette e racconta di come questo scatto "racchiuda in sé il valore del documento". Poi, spiega: "Sono ripassato per questa stessa strada dieci anni dopo e non esisteva praticamente più: per prima cosa è stata asfalta correggendo una delle curve, poi è stato costruito il guard rail. Infine gli alberi sono morti con la gelata del 1985".
Berengo Gardin iniziò a fotografare il mondo da giovanissimo. Da allora non si è più fermato. Ancora oggi continua in questa difficile vocazione che, nel corso dei decenni, lo ha portato a incontrare gente, visitare luoghi e vivere la storia. Nei suoi scatti si incontra proprio la storia – quella con la 's' maiuscola – fatta delle persone semplici che vivono la vita di tutti i giorni. "Molte volte – racconta Berengo Gardin – scatti le foto per istinto e ti rendi conto dopo che hai fatto un buon lavoro". Insomma, un lavoro lungo una vita. Nel suo studio milanese, Berengo Gardin custodisce gelosamente circa un milione e 350mila scatti. Fotografie che, a ottobre, saranno insignite del prestigioso Lucie Awards, la massima onoreficenza per la fotografia che, fino ad oggi, era stata data a grandi maestri come Henri Cartier-Bresson, Gordon Parks, William Klein e Wily Ronis.
Berengo Gardin, il suo lavoro è il riassunto di una vita che ha spaziato nel tempo e nei luoghi. Come ci si sente?
"Ho cominciato nel 1954 a lavorare seriamente con la macchina fotografica. Sono più di cinquant’anni. Anzi, a me piace dire che è più di mezzo secolo perché fa più impressione. Finché ci sarà la salute continuerò a farlo".
Mezzo secolo del secolo lungo. Ne è stato spettatore o artefice?
"Dipende. Il bello del tipo di fotografia che faccio io è che ogni volta cambiano tema e soggetto: certe volte sei artefice e certe altre subisci".
In questo mezzo secolo qual è stato l’evento o l’anno che maggiormente hanno caratterizzato la storia contemporanea?
"Senza dubbio il Sessantotto, sia per i movimenti politici sia per l’inchiesta che feci con Carla Cerati nei manicomi per Franco Basaglia. Negli anni settanta, invece, mi ha segnato il reportage fatto con Cesare Zavattini su Luzzara. Più recente, invece, la ricerca condotta sugli zingari che mi ha portato a vivere in tre campi nomadi".
Un tema ancora attuale…
"Francamente non so più cosa dire dal momento che lo ritengo un popolo di perseguitati. Hitler per primo ne sterminò oltre 500mila. Va detto, però, che come in tutte le società ci sono persone buone e persone cattive. Però, c’è meno cattivo di quanto si possa pensare".
Cosa ha imparato ad apprezzare di questo popolo?
"La generosità, la poesia e la musica. Per me è stato difficile entrare in questo mondo. Gli zingari sono sempre prevenuti nei confronti della macchina fotografica proprio perché, solitamente, si fotografa il lato negativo della realtà. Ho scoperto, poi, che durante la guerra nella ex Yugoslavia fuggiva molti delinquenti che, giunti in Italia, si andavano a 'nascondere' all’interno dei campi nomadi grazie al fatto che parlavano la stessa lingua".
Nel reportage condotto con la Cerati ha saputo 'sconvolgere' l’Italia obbligandole ad aprire gli occhi sull’universo, o meglio sull’inferno, dei manicomi. Dove nasce questo progetto?
"Nasce da un progetto di reportage propostomi da Carla Cerati che mi chiedeva di accompagnarla in questo viaggio. Entrare negli ospedali psichiatrici ho provato un forte sgomento: i pazienti venivano trattati peggio che nei campi di concentramento".
Tutti mondi raccontati in bianco e nero. Perché?
"Sono sempre stato un fanatico del bianco e nero. Fin da bambino ho succhiato latte fotografico in bianco e nero. Non solo. Sono fermamente convinto che per il mio tipo di fotografia sia molto più efficace il bianco e nero. Il colore distrae sempre: si vedono più i colori che il contenuto delle immagini".
Da qui la sua continua attenzione agli occhi e ai volti della gente…
"Il mio lavoro non è assolutamente artistico. E non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile. Oggi, purtroppo, non va più così: è un’esperienza diversa, un lavoro portato avanti con le gallerie. Per me, invece, è inconcepibile fare una copia in tiratura di pochi esemplari: la fotografia deve andare o sulle riviste o sui libri. D’altra parte, la macchina fotografica non nasce per fare della pittura".
Quando ha iniziato questo cammino?
"Nel 1954, quando sono andato a Parigi per frequentare i grandi maestri e iniziare a fare seriamente fotografia. Da Wily Ronis a Robert Doisneau, a Buba. Solo anni dopo ho conosciuto anche Henri Cartier-Bresson".
E come è stato?
"Una persona eccezionale. Devo dire che non ero il vero amico perché a lui era più legato Ferdinando Scianna. Tuttavia, mi posso vantare di una dedica di Cartier-Bresson che ho incorniciato nel mio studio: 'A Berengo con grande simpatia e grande stima'. Detto da Cartier-Bresson è una medaglia al valore".
Come in Cartier-Bresson e Doisneau, anche le sue foto hanno un’attenzione particolare per la vita di tutti i giorni.
"Esatto. Fotografo la gente di tutti i giorni, la gente per strada, gli artigiani".
Con il passare del tempo i media hanno reso la società di oggi meno sensibile ai reportage: le immagini ci sommergono da tutte le parti. Colpiscono realmente gli occhi (e la mente) degli uomini?
"Ormai se la foto non è un pugno nello stomaco, la gente non la guarda. Per fortuna, c’è gente più attenta che guarda anche le altre immagini".
Roma, Parigi, Svizzera: partendo da Santa Margherita Ligure per arrivare a Milano. E’ cittadino del mondo?
"Ero un pessimo studente e, siccome ai miei tempi i genitori non ti mantenevano fino a quarant’anni, compiuti i diciotto anni mio padre mi disse: 'O studi e ti mantengo altrimenti vai a guadagnarti da vivere'. E io sono andato a guadagnarmi da vivere con una cultura scarsissima. Tutto quello che oggi so l’ho vissuto in prima persona viaggiando nel mondo e facendo questo lavoro. Dalla Cina al Canada, agli Stati Uniti. Ho viaggiato in lungo e in largo per tutta l’Europa. Ho escluso solamente il Sud America e l’Africa".
Perché?
"Per mia scelta. L’Africa non mi interessava: tutti i fotografi che ci vanno, scattano solo fotografie con bambini di colore con gli occhioni bianchi. Mentre in Sud America perché trovo impossibile andare per poco tempo in un continente tanto grande e poterne capire qualcosa".
Chiudiamo con il sorriso più dolce che ha incontrato…
"Non lo so, francamente. Ho visto più visi tristi e addolorati che felici. Anche ai carnevali le persone hanno sempre facce molto tristi".
I
Su Gianni Berengo Gardin sono disponibili il grande volume monografico “Gianni Berengo Gardin” (65 euro) e l’edizione tascabile dedicata all’autore nella collana Fotonote (12,50 euro) entrambi pubblicati da Contrasto
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