Sembra di essere tornati ai tempi di Boris Pasternak, di Alexander Solgenitsin e di Andrei Sakharov, quando la Pravda e gli altri giornali allineati (cioè tutti) ospitavano certe «lettere aperte» di intellettuali in cui i dissidenti, quelli del Samiszdat, venivano additati come controrivoluzionari, nemici del socialismo, agenti al soldo dell'imperialismo. Un paio di lettere, qualche recensione al curaro, e la sorte di scrittori, poeti, musicisti era segnata. Il gulag, ai tempi di Stalin. Più tardi, e fino a quando la Russia si chiamò Urss, furono il carcere, l'oblio o l'ostracismo. Certi riflessi condizionati, pavloviani, in Russia non sono mai spariti. Così, quando il potere chiama, gli intellettuali allineati e coperti accorrono scodinzolando e sbavando all'idea delle prebende, delle medaglie, presidenze, sinecure, direzioni, regie su cui potranno contare con un semplice svolazzo in calce a un manifesto, una petizione, una «lettera aperta», appunto. Tutto, pur di compiacere il manovratore. Basta vedere la folla di artisti, direttori d'orchestra, letterati, cineasti che stanno saltando, in queste ore, sul carro del vincitore: quello allestito dal Ministero della Cultura che ha chiesto l'appoggio dell'intellighentia alla decisione di Putin di annettere la Crimea alla Santa Madre Russia. Il fatto è che gli intellettuali ovunque, non solo in Russia, per la verità- fanno comodo. Buoni a tutto fare, per dirla in francese, spesso snobbati o sfottuti, si rivelano nel momento del bisogno un insostituibile articolo di lusso in servizio permanente effettivo. Una specie di riserva strategica. Sia che siano pro o contro, funzionano magnificamente, se manovrati con la necessaria sagacia. Come un manganello, un'efficacissima arma impropria. Naturalmente dipende dalla bisogna, dalle circostanze, dalle convenienze. Così, mentre in Russia si salta sul carro di Putin, nel caso turco dopo la chiusura di Twitter e di YouTube da parte del regime- lo sport del giorno è dare addosso al «dittatore» Erdogan, che di questo passo, in effetti, si guadagnerà il titolo senza virgolette. A scrutare in platea, nel gran teatro moscovita degli appassionati sostenitori dell'annessionista Putin, si vede di tutto. Ecco per esempio il maestro Valery Gergiev, per il quale l'Ucraina «è una parte imprescindibile del nostro retaggio culturale». Gergiev è il direttore del teatro «Mariinsky», nonché principale direttore della London Symphony Orchestra. Accanto a lui, per restare nel ramo musicale, ecco il pianista Denis Matsuev, per non dire di Vladimir Urin, direttore generale del Bolshoi. Oltre 500 le firme degli entusiasti, compreso un morto e due che non erano stati interpellati, come ha ammesso facendo pubblica ammenda il Ministro della Cultura. «Sembra davvero di essere tornati ai tempi dell'Unione Sovietica», ricorda lo scrittore non allineato Boris Akunin, commentando la scena. «Ai tempi di Stalin, anche se eri una figura preminente dell'arte o delle scienze, chi la pensava diversamente finiva al muro. Con Brezhnev era la prigione. Ora ti lasciano affogare nel dimenticatoio o ti fanno viaggiare in classe economica. Ma è uno spettacolo sempre affascinante vedere da che parte ci si schiera». Soprattutto quando Putin taccia i titubanti di «traditori della nazione».
Nel caso turco, invece. Nel caso turco, la «linea» vincente è quella di dare addosso al regime liberticida a prescindere, schierandosi contro. «La situazione in Turchia va di male in peggio» e la chiusura di YouTube dopo quella di Twitter desta «grande preoccupazione», tuona il premio Nobel Orhan Pamuk, che ha sottoscritto l'immancabile manifesto di denuncia contro i metodi del premier Recep Tayyip Erdogan.
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