Vacilla il trono di Tayyip Erdogan, primo ministro di Turchia dal 2002, soprannominato per la sua megalomania «il nuovo Sultano». Ormai da tempo, l'uomo che si proponeva di resuscitare lo spirito islamico bandito da Atatürk e nello stesso tempo diventare il dominus della politica mediorientale appoggiando le varie primavere arabe accumula errori su errori, alienandosi l'America, Israele, l'Egitto e quasi tutti gli altri suoi vicini, rompendo con il suo grande sponsor, l'imam Fetullah Gülem, e reprimendo nel sangue una pacifica dimostrazione per salvare un parco di Istanbul. Appena un mese fa, dopo che la Turchia è stata condannata per il terzo anno consecutivo come il Paese al mondo che tiene più giornalisti in galera, l'Economist lo ha definito «sempre più paranoico».
Adesso rischia di essere travolto, alla vigilia di un cruciale anno elettorale, dallo scoppio di una Tangentopoli che ha pochi precedenti in Europa. Nel giro di tre giorni, sono stati arrestati per corruzione, frode, contrabbando di oro e violazione delle leggi edilizie i figli dei ministri dell'Interno e dell'Economia, il direttore generale della Halkbank, il più grande costruttore del Paese e un'altra quarantina di personaggi legati al partito del premier AKP. Erdogan ha reagito licenziando il capo della polizia di Istanbul e una trentina di funzionari responsabili delle indagini e attribuendo lo scandalo a un complotto ordito da potenze straniere, fino a minacciare di espulsione l'ambasciatore americano e alcuni suoi colleghi perché impegnati in azioni provocatorie. «Stiamo combattendo - ha detto - contro una banda di criminali, ma non cederemo a nessuna minaccia».
L'indiziato numero uno è in realtà l'uomo che lo ha aiutato prima a conquistare e poi a consolidare il suo potere, quell'imam Gülem che, anni fa, se ne è andato in esilio negli Stati Uniti ma continua ad esercitare una forte influenza sulla magistratura, sulla stampa, sul sistema scolastico e si è apertamente dissociato sia dalla rottura con Israele, sia dall'assistenza fornita da Erdogan ai ribelli siriani, sia dalla sciagurata alleanza con i Fratelli musulmani. Gülem ha negato qualsiasi coinvolgimento nell'affare, ma su un sito a lui legato sono comparse queste terribili parole che somigliano a una fatwa: «Che Allah porti il fuoco nella case, rovini le famiglie, semini la discordia tra coloro che non vedono il ladro ma perseguitano coloro che cercano di catturarlo, che non vedono gli assassini ma cercano di attribuirne le colpe a gente innocente».
Nei suoi quasi dodici anni di potere, Erdogan ha fatto molto per la Turchia. Ha triplicato il reddito pro-capite, ha ridimensionato con metodi peraltro molto discutibili, come un processo farsa che ha portato all'arresto di trecento alti ufficiali il potere delle forze armate, ha intrapreso un grandioso programma di opere pubbliche culminato proprio un mese fa nell'inaugurazione di un tunnel di 14 chilometri sotto il Bosforo. Ma ha anche permesso a una ristretta cerchia di palazzinari vicini al suo partito operazioni di speculazione edilizia che hanno stravolto il panorama di Istanbul, demolendo quartieri storici e coprendoli di vetro e cemento armato, fino al tentativo, abortito grazie alla rivolta popolare dello scorso giugno, di eliminare anche l'unico grande parco rimasto. Con il passare del tempo, è diventato per dirla con il capo dell'opposizione laica «troppo potente, troppo arrogante e troppo autoritario», imponendo non solo un graduale ritorno della Turchia alle sue antiche tradizioni islamiche, come il velo per le donne, ma pretendendo anche si disporre quanti figli i cittadini devono fare e quale cibo devono consumare. La rottura con Gülem, che secondo molti dispone di un vero e proprio Stato nello Stato, potrebbe costargli molti voti nelle prossime elezioni e sicuramente liquidare il suo sogno di cambiare la Costituzione e farsi eleggere a capo di una repubblica presidenziale.
Se lo scandalo scoppiato questa settimana dovesse essergli fatale, pochi all'estero lo rimpiangerebbero: non l'Unione Europea, che lo considera troppo islamista e troppo poco democratico per aprire le sue porte alla Turchia, non la Nato furiosa per il suo recente acquisto di un sistema missilistico cinese, non l'America che ha cessato di considerarlo un alleato privilegiato. Come dicevano i romani, sic transit gloria mundi.
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