La tempesta su Erdogan frena il boom della Turchia

Borsa in ginocchio e lira turca ai minimi storici, preoccupazioni anche per le tante imprese italiane coinvolte nell'interscambio

La tempesta su Erdogan frena il boom della Turchia

Turchia al bivio. Cuscinetto tra Occidente e Oriente, il Paese della mezzaluna negli ultimi anni ha visto triplicare il prodotto interno lordo e lievitare investimenti e business a tal punto da far balzare il reddito pro capite dai 3500 dollari del 2003 ai 10mila del 2012. Da quest'estate, però, il governo di Recep Tayyip Erdogan ha iniziato a perdere consensi. E dopo dieci anni d'incontrastato potere le sue scelte e le sue strategie sono state messe in discussione fuori e dentro il partito. Così, nonostante il giro di vite seguito alle proteste di piazza in giugno, da qualche settimana, una crisi politica senza precedenti ha messo in ginocchio la Borsa e la lira turca. Una situazione fragile che rischia di compromettere il «miracolo» economico compiuto dal Paese e, a cascata, gli investimenti esteri, compresi quelli dell'Italia che di Ankara ha fatto il quarto partner commerciale con un interscambio che vale 11,5 miliardi di dollari.

Dopo i presunti tentativi di golpe che gli hanno permesso di esautorare i vertici dell'esercito, privandolo del suo ruolo storico in difesa della laicità, il dissenso è esploso a metà dicembre quando un gravissimo scandalo per corruzione ha travolto Erdogan e il suo partito obbligandolo al rimpasto di governo. «Una mossa - commenta Claudia Segre, segretario generale di Assiom Forex - che ne ha messo in luce tutta la debolezza innescando le vendite sui titoli domestici». Un primo deflusso di capitali che ha raggiunto il culmine nelle ultime settimane e che inizia a interessare anche quelli esteri. Così, nell'ultimo mese, la Borsa ha perso il 15% e la lira turca è crollata a quota 2,14, il minimo storico contro il dollaro. Un cortocircuito finanziario che secondo il vice primo ministro Bülent Arinc è costato all'economia del Paese oltre 100 miliardi di dollari. «La situazione, fino alle elezioni di marzo, non è destinata a migliorare con il partito del premier (Akp) che si prepara al dopo Erdogan e l'opposizione che non è ancora abbastanza forte da favorire l'alternanza», aggiunge Segre. In questo contesto, iniziano a tremare le tante aziende italiane che operano nel Paese. Nel 2006 erano meno di 55, ma nel 2013 hanno superato quota mille.

Tra queste ci sono colossi come Ferrero, che ha appena aperto un nuovo impianto a Manisa (il 19°), Barilla, Eataly, Unicredit, Intesa San Paolo, Pirelli, Fiat, Azimut. Da tempo, infatti, la Turchia non è più una terra di delocalizzazione a basso costo, ma un mercato e una base produttiva per l'Europa e l'Oriente. Ankara è oggi il sesto mercato di sbocco del made in Italy nel mondo e dà un notevole contributo al surplus della nostra bilancia commerciale (5,4 miliardi). Tra le presenze eccellenti figurano colossi come Pirelli, che nel Paese produce pneumatici con un fatturato di oltre 500 milioni. Ma anche tanti costruttori che hanno vinto gare per porti, stazioni, aeroporti, autostrade e linee ferroviarie: da Astaldi a Salini-Impregilo passando per le Ferrovie dello Stato, Atlantia e Ansaldo Sts. In campo energetico, Enel Green Power opera nel mercato verde turco ed Eni è stata protagonista della costruzione del gasdotto Blue Stream. A livello industriale, Recordati vi realizza l'8% del fatturato e Indesit il 5 per cento. Quanto alla galassia Fiat, il Lingotto possiede il 38% dell'azienda automobilistica Tofas. Insomma, una presenza capillare che ora potrebbe subire il contraccolpo di una crisi dai contorni indefiniti.

«Difficile prevedere cosa accadrà agli investimenti nel Paese e quali saranno le conseguenze di questa crisi, tuttavia - spiega Segre - la Turchia non è l'Egitto e la situazione dovrebbe essere transitoria. In ogni caso, fino alle elezioni di marzo sarà difficile ritrovare stabilità».

L'era Erdogan sembra quindi arrivata al capolinea e con essa l'ambizioso programma con cui voleva festeggiare i 100 anni della Repubblica: portare la Turchia tra le 10 più importanti economie del mondo, il reddito pro-capite a 25 mila dollari, le esportazioni a 500 miliardi di dollari e dare vita a un'industria di automobili, velivoli e mezzi militari 100% made in Turkey. L'uomo definito dal Financial Times come «il più potente della storia recente della Paese» non ce l'ha fatta a vincere il fantasma del grande Atatürk, il vero padre della Turchia moderna.

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