Il Colosseo, oggi, a Roma, non conta più niente. Il ruggito dei leoni e delle tigri, lo stesso che sentiva di notte Carlo Levi raccontandolo ne L'orologio (era il 1950), è appena il rantolo di un gatto randagio. Nemmeno i giapponesi in gita lo guardano più: scendono dalla metropolitana, scattano veloci due fotografie e prendono subito il largo per i Fori Imperiali, verso la grande piazza del Milite Ignoto, per poi perdersi tra le vie del centro e del Corso, o annullandosi dentro qualche negozio, magari Zara o Foot Locker, che trovi uguali a Roma, New York e Parigi, che potresti anche startene a casa, in fondo, che tanto pure a Tokio sono gli stessi.
Allora bisogna cercare un Colosseo più veritiero, dove a entrarci si sentono ancora le grida, la puzza di sudore e di fumo, dove chi combatte lo fa per la vita e chi grida lo fa perché quella vita, di rimando, sente che gli sta esplodendo addosso. Per esempio, potremmo fare come Aurelio Picca, che nel suo nuovo (spietato) libro, un romanzo e anche qualcosa di più o di diverso, Arsenale di Roma distrutta (Einaudi, pagg. 114, euro 16; in libreria da martedì), entra al Palasport, quello sospeso come una navicella spaziale sopra lo stagno, o il buco nero del laghetto dell'Eur. Entrarci, però, in una data cruciale, il 7 novembre del 1970, e guardare l'incontro di Nino Benvenuti e Carlos Monzón: a un angolo del ring «l'artista» istriano ma romanizzato, all'altro «il criminale» argentino. Siamo nel centro, non solo per il numero di pagine, dell'intero discorso di Picca. Il capitolo, più esattamente, è la cronaca di quell'incontro, dodici round che videro l'artista dei medi, quello che aveva raccolto l'eredità dall'angelo biondo Tiberio Mitri, sconfitto dal criminale. Eppure, ed è questo il punto, in quell'incontro feroce, dove feroci erano pure le grida di chi l'incontro l'osservava solamente, ma come lo stesse combattendo in altra forma, Picca racconta l'alchimia di una Roma vitalissima e spregiudicata, pagana e cristiana, feroce ma mai cattiva.
Conoscendo l'opera di Picca, ci sembra di essere tornati qui ai suoi libri più selvaggi, al coraggio strafottente delle pagine de La schiuma (1992) e de I mulatti (1996), o alle istantanee abbaglianti dei Racconti dell'eternità (1995), in cui l'eccesso era la forma attraverso cui la giovinezza cercava, trovandolo, un assoluto. Quella giovinezza, allora, era pure ciò che Picca viveva, come dire, in presa diretta. Adesso, potremmo correre l'errore di leggere Arsenale di Roma distrutta come il libro di chi si ostini a ripetere un vissuto ormai scomparso dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta , come chi si fa travolgere dalla nostalgia, chi si accasci sui ricordi in un lamento funebre. Invece è il contrario: se è vero che quella giovinezza è un assoluto, Picca ha capito che non ce n'è altra possibile, di giovinezza, che non sia della scrittura. «Roma, da ragazzino al Palasport, prima che vi ascoltassi Napoli Centrale, i Genesis, Santana... era una carne viva, sputava bestemmie soavi e un dialetto aromatico, pieno di ito e semio e mortacci vostra e bovi! Sapeva di tabacco, di cessi, di segatura umida, di piscio pieno di emazie. Aveva le dita gialle per la nicotina. Sangue denso, troppi globuli rossi (minimo seimilionisettecentomila), ematocrito fuori controllo. Roma, al Palasport, inglobava i grandi invalidi, gli uomini con in tasca la tessera del partito (Pci, Pri, Dc, Psi, Msi). Roma aveva l'ernia. Era una femminona con i capelli unti che mi allisciava sul capo e non smetteva di ripetere: pische', a pische'. 'Ndo vai pische'?!».
Come in altri libri, e penso soprattutto a Tuttestelle (1998) e Addio (2012), Picca usa se stesso (o la sua scrittura) per raccontare una nazione. Quello che la sua scrittura e la visione stessa che ha del mondo hanno sempre cercato, è di raccontare la carne viva di un Paese, di fare dell'Italia, voglio dire, un corpo pulsante, che magari sputa sangue livido, ma resta disperatamente vivo. Roma, quindi, dobbiamo leggerla allo stesso modo. I suoi criminali criminali che ancora non hanno indossato la giacca, che delinquono per ribellione, per bestemmiare la loro rabbia e vitalità al mondo, più che per necessità reale, più che per arricchirsi, più che per conquistare il potere , le sue mignotte generose accoglienti e materne ai bordi delle strade, le bische e i bar con i tavoli da biliardo sul retro, i «macellari» e i «pizzicagnoli» col camice sporco di grasso, le comitive che con le macchine sfrecciano sulla Nomentana e nei cruscotti nascondono le pistole.
Tutti questi ambienti, atmosfere, questi respiri affannati e questi odori, questi personaggi che sono veri e nello stesso tempo simboli di un'epica, che costituiscono una mitologia prima ancora del mito (Giorgio Chinaglia, Bruno Giordano, Benvenuti e Monzón, fino a Renatino De Pedis o a un vecchio amico spacciatore di cocaina che si rincontra solo dopo anni, ma al cimitero), rivivono attraverso il corpo, vitalissimo e giovane, di chi scrive. Roma, nel romanzo, è nel pieno della sua giovinezza e dei suoi ruggiti selvaggi perché è la scrittura di Picca che esprime l'assoluto di quella stessa giovinezza: «Quella miserabilità era dolcissima: una pena così umana da meritare la gloria di una battaglia senza morti. Era Roma. Quelli erano i figli di una Roma umiliata ma a capo basso per aspettare la ghigliottina del destino. Quella Roma polverosa di gambe storte e pelose, di scoliosi e vista da cecati o da poca luce, era ancora la Roma che resisteva umile e feroce, quella che come mi disse Sergio Citti a Fiumicino, al ristorante Oasi aveva resistito dall'Ottocento al 1957».
Allora, però, capiamo che se è qui che Picca desidera restare, più che nostalgicamente tornare, è perché ha capito che in quella Roma è possibile ancora
ripetere l'esperienza della propria innocenza: quella di uomo e di una collettività ancora viva. Un'innocenza che è anche eroica, epica, violenta, folle, barbara. «Le stesse qualità dei criminali. Le stesse degli artisti».
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