Il popolo può respirare: il grande nemico, il drago capace di falcidiare i redditi e di mettere a rischio la stessa sopravvivenza delle sue vittime, è sconfitto. Il popolo vincitore è quello delle partite Iva, a morire e ad avviarsi verso la rottamazione è invece il simbolo più evidente del fisco cieco e implacabile degli ultimi vent'anni: l'istituto degli studi di settore. La riforma, attesa, è ufficialmente partita nelle settimane scorse: d'ora in avanti si cambia. Anche se la rivoluzione potrebbe essere soprattutto psicologica, visto che il drago-studi settore si era visto negli anni limare via via gli artigli e che il Fisco sembra destinato a continuare a far male, almeno se si guarda a livello delle aliquote e complicazioni procedurali.
Interessate alla svolta sono 3,6 milioni di persone: artigiani e piccoli imprenditori, negozianti, liberi professionisti, una buona fetta dei 5 milioni e passa di italiani che hanno una partita Iva (sono circa il 22% della popolazione attiva). Fino ad ora hanno dovuto fare i conti con i già citati studi, una stima automatica dei ricavi della loro attività elaborata dall'amministrazione finanziaria, sulla base di rilevazioni statistiche effettuate categoria per categoria e a cui i contribuenti dovevano adeguarsi.
DISEQUITALIA
Dal punto di vista concettuale gli studi sono, almeno nell'interpretazione che per anni ne ha dato l'amministrazione finanziaria, di una semplicità clamorosamente arbitraria. In pratica dicono questo: sulla base di statistiche e caratteristiche della tua attività, giro d'affari e imponibile devono essere a un determinato livello. Non lo sono? Impossibile, noi comunque quello ti facciamo pagare, al limite tocca a te dimostrare che ci sbagliamo. Sembra brutto? Lo è.
Sull'altro piatto della bilancia, inutile nasconderlo, c'è un'altra realtà con cui bisogna fare i conti: come diceva Giulio Andreotti, al momento di compilare la dichiarazione dei redditi ancora troppi italiani fanno un esercizio eccessivo della pur ammirevole virtù dell'umiltà. Secondo i dati dell'Ocse, il cosiddetto tax gap, cioè la differenza tra quanto i contribuenti hanno versato e quello che avrebbero dovuto versare se fossero stati sinceri è intorno al 18/19%. Rispetto ai primi anni 2000, in cui si superava il 23%, un miglioramento c'è stato, ma siamo a livelli ancora praticamente doppi di paesi come la Francia (9%) o la Germania (11%).
Di fronte a questa realtà si trovarono i governi dei primi Anni Novanta, che, dopo i fasti del Pentapartito e di Tangentopoli, si dovettero ingegnare per recuperare imponibile nel disperato tentativo di rimettere in quadra i conti di un Paese in dissesto. L'esecutivo guidato da Ciampi in carica tra il 1993 e il 1994 (il ministro delle Finanze era Franco Gallo; vedi anche l'intervista in questa pagina) introdusse, sotto forma di parametri o coefficienti a cui le partite Iva dovevano attenersi, gli antenati degli studi di settore, che un po' alla volta hanno assunto la forma attuale.
PUNIZIONE BIBLICA
L'obiettivo di milioni di dichiarazioni è così diventato quello di raggiungere la tanto agognata «congruità» (il rispetto degli indicatori statistici relativi al giro d'affari), la «normalità» e la coerenza (l'adeguamento ad altri indici individuati dall'amministrazione fiscale). Negli studi dei commercialisti è entrato nell'uso comune un semisconosciuto riferimento biblico, Gerico, che è anche il nome del software che elabora il fatturato «corretto» di una qualsiasi attività. In caso di «incongruità» il contribuente si è trovato di fronte alla scelta se «adeguarsi», e cioè di accettare di pagare non secondo il suo fatturato ma secondo i numeri elaborati da Gerico, oppure subire un accertamento. Ce n'era abbastanza per scatenare una ribellione che ha preso la forma di migliaia di ricorsi alle Commissioni tributarie.
Alla fine a pronunciarsi è stata la Cassazione, che nel 2009 ha avviato la demolizione degli studi. Il principio dettato dai magistrati stabilisce che l'incongruità non possa giustificare un accertamento automatico, che va sostenuto con altri elementi. La minaccia di passare ai «raggi X» l'intera contabilità, in caso di mancato rispetto dei parametri statistici, è rimasta, ma si è depotenziata. Anche gli studi si sono affinati nel tempo: una società fondata dall'Agenzia delle Entrate, Sose, si è trasformata in una sorta di piccolo Parlamento in cui sono rappresentate le categorie interessate, che hanno raggiunto la rispettabile quota di 193.
RIFORMA GRADUALE
Prima dell'adozione con decreto ministeriale degli studi i singoli parametri statistici vengono esaminati dalle associazioni delle professioni che andranno a colpire. «La Commissione degli esperti ha ufficialmente parere consultivo, ma non è mai successo che uno studio venisse approvato senza l'accordo di tutti», spiega Alessandro Santoro, docente di Scienze delle Finanze e pro-rettore dell'Università Milano Bicocca. Un po' alla volta le storture del passato sono state eliminate. Anche se la complessità delle informazioni richieste, pur semplificate nel tempo, non è cambiata di molto. «Per anni siamo impazziti a fornire all'amministrazione dati che erano inutili o che aveva già a disposizione nelle sue banche dati», spiega un commercialista. «Mi è toccato far misurare la lunghezza degli scaffali di un panificio o calcolare quanti chili di farina avesse utilizzato in un determinato periodo». Un po' alla volta comunque l'impatto delle rilevazioni statistiche è cambiato: «Dopo la sentenza della Cassazione la minaccia rappresentata dagli studi di settore è diventata soprattutto teorica», aggiunge Santoro. «E anche il numero degli accertamenti legati ai casi di incongruità, è ormai estremamente ridotto». Nel 2016, si sono praticamente dimezzati di fronte all'anno precedente, già in calo. Sui milioni di partite Iva, quelli legati agli studi di settore sono stati solo poco di 3700.
PROMOSSI E BOCCIATI
I tempi insomma erano maturi per abolire gli studi e la decisione presa l'anno scorso è stata attuata da Enrico Maria Ruffini, ex avvocato, ai vertici dell'Agenzia delle Entrate dall'inizio dell'estate, primo numero uno a non provenire dai ranghi dell'Amministrazione. Per 70 categorie, già dalla dichiarazione di quest'anno, quella che si presenterà materialmente nel 2018, gli studi di settore sono aboliti. C'è di tutto, comprese professioni diffuse e importanti: dai parrucchieri ai carrozzieri, dalle sale giochi agli agenti immobiliari, dagli stabilimenti balneari agli avvocati. Per le altre partite Iva bisognerà attendere ancora almeno un anno. Al posto degli studi arriveranno gli Isa, indicatori sintetici di affidabilità. Funzioneranno un po' come una pagella scolastica, con voti che andranno dall'uno al dieci. «A cambiare è la filosofia: da una logica punitiva si passa a una logica premiale», chiarisce Santoro.
In pratica sulla base dei dati contenuti nella dichiarazione presentata il contribuente riceverà un giudizio. Chi verrà considerato più affidabile avrà dei vantaggi. Tra di essi ci saranno la semplificazione di una serie di adempimenti, facilitazioni nelle pratiche di rimborso, la riduzione nei tempi dei possibili accertamenti, l'esclusione da alcune tipologie di controlli.
Basteranno questi «premi fedeltà» per cambiare il rapporto tra fisco e partite Iva? A essere prudente è la Cgia, l'associazione artigiani e piccole imprese, di Mestre. «Agli studi di settore diciamo addio senza nessun rimpianto», spiega Paolo Zabeo, coordinatore dell'Ufficio studi.
«Quanto agli Isa bisognerà vedere se saranno davvero una semplificazione e se finiranno per scendere le tasse, che restano troppo alte per la sopravvivenza di molte aziende. Vedremo con l'applicazione: il rischio è che cambi l'etichetta ma che il contenuto resti lo stesso».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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