"Il futuro del Cristianesimo? È nel Vangelo"

Uno fra gli ultimi grandi pensatori cristiani illustra le basi del suo pessimismo positivo: "La scienza non risolve i problemi universali". E spiega: "Il ’68 ha distrutto senza costruire nulla di positivo"

"Il futuro del Cristianesimo? È nel Vangelo"

Con René Girard, nessun alibi. Anche se ne cercate volonterosamente uno, la sua teoria vi inchioda. Dal complesso di Edipo si poteva ancora fuggire, sgattaiolare per uscite secondarie, cincischiare guardando gli stucchi dorati del soffitto e componendo poesie decadenti. Con René Girard, invece, le cose stanno come in un sermone di Bossuet. Come negli ultimi scritti di Simone Weil. Un formicolio escatologico, un’urgenza che vorremmo definire morale, se l’aggettivo non fosse guastato, si trasmette dalla pagina a voi che la leggete.

D’altra parte, René Girard è un porcospino. L’ha detto più volte anche il suo editore italiano Roberto Calasso: «Girard è uno degli ultimi “porcospini” oggi sopravviventi, secondo la tipologia che Isaiah Berlin ha derivato dal verso di Archiloco: “La volpe sa molte cose, ma il porcospino sa una sola grande cosa”. La “sola grande cosa” che Girard sa ha un nome: capro espiatorio».

La teoria girardiana a proposito è molto semplice, e forse proprio per questo così persuasiva, trasversale e senza scampo. Se desidero ardentemente un SUV con targa monegasca, una cena tête à tête all’Eliseo con Sarkozy e Carla Bruni, lo chic e lo charme, quella donna o quello yacht o quel premio Nobel, è perché un buon numero di altre persone a me simili desiderano con la stessa intensità le stesse cose. Non esiste desiderio autonomo, ma sempre triangolare, imitativo, per contagio. Come un bambino, tabula rasa, impara per imitazione, così si desidera. Insomma, il desiderio è mimetico. Purtroppo, lo è anche la violenza. Quando la folla eccitata si scaglia contro un capro espiatorio, è per placare l’insostenibile violenza mimetica accumulatasi nei singoli - ma correlati - animi di una comunità. Anche nei Vangeli è andata così, solo che, al contrario che nelle altre religioni, noi sentiamo, sappiamo l’innocenza della vittima, e partecipiamo alla sua innocenza come alla nostra colpa. Non ci sono più alibi dopo il Golgota. Ma solo fuga dalla responsabilità: un contarsela su.

Sì, avete intuito bene: René Girard è uno degli ultimi grandi pensatori cristiani, sebbene questo non lo esenti da un latente sconforto circa le cose umane. È la prima sensazione che ci comunica la sua voce quando ci risponde dal suo studio all’Università di Stanford.

Professor Girard, in «Vedo Satana cadere come la folgore» definiva il mondo sempre più cristiano, per via della nostra crescente attenzione per le vittime. Nel suo ultimo libro uscito in Italia, «Portando Clausewitz all’estremo», dice invece che viviamo in un tempo apocalittico. Che cosa è successo tra questi due titoli?
«Credo solo di aver espresso in modo più aperto il mio pessimismo. A quanto pare, contrariamente a quanto pensava Freud, la coscienza dell’errore non è per niente stimolo a migliorarsi. Il fatto che non riusciamo a osservare le prescrizioni di Dio dovrebbe essere considerato un fallimento dell’uomo, ma non vedo una reazione di questo tipo. Oggi siamo lontani dalla cristianità. L’uomo dovrebbe accettare il fatto di essere considerato colpevole, ma fa come gli struzzi, infila la testa sotto la sabbia».

Un esempio di colpa?
«Pensiamo, nell’ultimo mezzo secolo, all’eclatante problema dell’ambiente. L’entomologo Edward O. Wilson ha verificato come le specie spariscano al ritmo di una ogni nove minuti. In questo momento non c’è alcun segno che questa distruzione della vita rallenti. Anzi, sembra accelerare. Siamo fieri quando parliamo di ambiente, ma non sappiamo prendere misure concrete, nonostante qui negli USA la questione sia molto acuta, a volte negata, altre volte strumentalizzata».

Ma c’è una maggiore sensibilizzazione a riguardo...
«Dubito però che l’avvicendarsi generazionale porti un sufficiente cambiamento politico. Il motivo è ovvio: prendere misure concrete significherebbe diminuire la produzione. Nessun funzionario eletto è disposto a fare una cosa del genere, per l’elettorato potrebbe essere molto disdicevole. Questa democrazia alla quale siamo così legati è il peggior regime possibile per risolvere problemi enormi come l’ambiente, e molti altri che per la prima volta si pongono nella storia umana».

C’e sempre la scienza, avvertita come panacea di tutti i mali...
«La scienza enfatizza il funzionamento e così, a volte, diventa un’illusione collettiva. Ma il mistero permane anche in essa. La scienza risolve problemi locali, non universali. Oggi comprendiamo i giorni e le notti, le stagioni, ma abbiamo solo spostato il mistero. No, la strada è un’altra».

V’è, pure, un eccesso di libertà personale e politica al quale nessuno vuole rinunciare. Viviamo senza divieti, ma non sappiamo vivere.
«L’idea alla base di ciò è che ogni generazione vuole e riesce a cancellare quello che la precedente ha costruito. Il ’68 in questo non ha portato nulla di positivo. Ha distrutto, ma senza aver niente con cui rimpiazzare quello che distruggeva. Ritengo che tradizioni che hanno attraversato i secoli abbiano il diritto di sopravvivere e che sia possibile trovare un compromesso fra il desiderio di trasformare la cultura - che per inciso qui in America non è più popolare come cinque anni fa - e quello di conservarla».

Lei ha scritto anche celebri libri di critica letteraria su Shakespeare, Dostoevskji... Oggi la letteratura non è più utile a «togliere il velo» ai conflitti umani. È solipsistica fin negli avverbi.
«Sono d’accordo. Penso che la letteratura debba esprimere i veri problemi del suo tempo, ma il post-strutturalismo, anche se è troppo attribuirgliene tutta la colpa, ha negato che gli scrittori, gli intellettuali, possano esprimere qualcosa che vada oltre le loro passioni, qualcosa che possa avere un’influenza decisiva. Deploro ciò e non trovo nemmeno divertente, per esempio, l’immolarsi in questo senso di Michel Foucault».

Si vede in letteratura una sorta di iperrealismo pornografico, del tutto privo di magia artistica, dovuto forse alla mancanza di storie vere. Philip Roth che dettaglia sgradevolmente per pagine la morte del padre...
«Fenomeno bizzarro, dovuto alla psicanalisi e alla sua enorme influenza non solo sull’arte. Negli ultimi tempi ci stiamo accorgendo di aver lasciato troppo potere all’analisi, quando è solo un modo per prendersi in giro, senza tener conto di ciò che ci circonda davvero. È nociva tutta questa enfasi data ai genitori, per esempio, quando l’influenza del mondo esterno sull’essere umano è molto più importante di quella della famiglia».

Persino i nostri santi, diceva Isaac Singer, non sarebbero stati meglio se fossero vissuti tra i malvagi. Poiché la società, mimeticamente, trascina e corrompe. C’è ancora spazio oggi per la santità?
«Non solo spazio, ma anche aiuti. Un tempo apocalittico annuncia pur sempre un avvento, una salvezza, sebbene non terrena. Quando mi chiedono del futuro del cristianesimo, rispondo: cercatelo nel Vangelo».

Però lei è più scopertamente pessimista che in passato.

Dopo aver scritto «Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo», crede che scriverà «Delle cose che rimarranno nascoste anche dopo la fine del mondo»?
Non lo vedo, ma attraverso le cuffie di Skype che mi collegano a lui nel suo ufficio in California, mentre guardo fuori dalla finestra la campagna lombarda bagnata di pioggia, sento che René Girard sorride.

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