Rodolfo Parietti
da Milano
È la teoria del «boomerang cinese», e a enunciarla è Alan Greenspan, secondo il quale ladozione di misure protezionistiche contro lexport di Pechino non solo non garantirebbe benefici allindustria americana e al mercato del lavoro, ma finirebbe per avere ricadute negative sullintera economia Usa. Così come una rivalutazione dello yuan, per quanto auspicabile, lascerebbe irrisolto il problema del deficit commerciale a stelle e strisce.
Posizioni controcorrente quelle espresse ieri al Senato dal presidente della Federal Reserve in unaudizione cui ha preso parte anche il segretario al Tesoro, John Snow. Che, in modo alquanto curioso, ha finito per sposare le tesi di Greenspan sulla necessità di evitare tentazioni di isolazionismo commerciale. Curioso, non fossaltro perché lamministrazione Bush ha di recente reintrodotto dazi del 7,5% su alcuni prodotti tessili cinesi per difendersi dallinvasione di t-shirt, biancheria intima e, soprattutto, pantaloni di cotone (più 1.500% limport nei primi tre mesi del 2005).
Per il leader della Fed, che ha precisato di parlare a titolo personale, questa non è tuttavia la strada da battere: alzare barriere tariffarie «diminuirebbe sostanzialmente il tenore di vita dei cittadini americani», garantito dal secondo dopoguerra anche dall«apertura dei mercati globali». Considerate le inevitabili ritorsioni verso cui lAmerica sarebbe esposta e le maggiori importazioni dai Paesi non soggetti a regimi tariffari, i dazi non sono il rimedio «per dare spinta al comparto manifatturiero e creare posti di lavoro». Devono essere le libere dinamiche dei mercati, ha suggerito il banchiere centrale, ad assolvere il compito di riequilibrare i rapporti commerciali con la Cina.
Lanalisi di Snow ricalca le linee-guida di Greenspan, ma con unimportante variazione sul tema: per evitare che si diffonda il contagio protezionistico, «dannoso alle prospettive di tenore di vita di tutto il mondo», la Cina deve rendere più flessibile la propria moneta. I tempi sono maturi, ha detto Snow. Pechino non si pronuncia, anche se il ministro degli Esteri Liu Jianchao ha detto ieri che il tema del tasso di cambio sarà oggetto di discussione al G8 del 6-8 luglio.
Il nodo della rivalutazione dello yuan, da quasi un decennio agganciato al dollaro con un rapporto di 1 a 8,28, è molto avvertito negli Stati Uniti, dove le aziende americane sostengono che, grazie al cambio, le imprese cinesi godono di un vantaggio competitivo del 40%. I dati parlano chiaro: nel primo trimestre, il passivo della bilancia commerciale verso la Cina è balzato a 42 miliardi di dollari (più 40%).
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.