I film italiani arenati a Venezia si mettono in vetrina sul Tevere

Al Lido Soldini esigeva il concorso o niente e Mazzacurati non era pronto

da Roma

Magari non ha torto Enrico Vanzina quando ironizza: «Non capisco perché tanti miei colleghi siano così preoccupati di andare a un festival invece che andare bene in sala». Già. Un festival è spesso un azzardo per i film italiani, capita di rado che la buona (o vivace) accoglienza critica si muti in successo al box office. E però, alla fine, eccoli tutti in fila, decisi a partecipare, qualche volta a porre condizioni, indispettiti se poi arriva un «no, grazie». Succede a Venezia, meno a Roma, dove - sarà il clima di festa glamour o la stagione delle uscite - i registi italiani accettano più volentieri collocazioni che altrove forse respingerebbero.
Un esempio? Giorni e nuvole di Silvio Soldini, con Margherita Buy e Antonio Albanese, di cui pure si dice un gran bene dopo l'anteprima al festival di Toronto, ormai praticamente «gemellato» con Roma. Fu visto a luglio da Marco Müller e collaboratori. Soldini e il suo produttore chiedevano il concorso o niente, alla fine il film ha preso altre strade e la Festa, in chiave di risarcimento, lo piazza nella sezione Première, la più scintillante e pop della kermesse. Magari la collocazione giusta per questa «cronaca di un fallimento» che, nel raccontare l'Italia odierna con occhio neorealistico, reinventa in salsa genovese un classico motivo drammaturgico. Come succedeva in Full Monty e in A tempo pieno, il marito dirigente si vergogna di confessare alla moglie d'esser rimasto disoccupato, sicché finge per mesi di andare in ufficio; e intanto la famiglia va a rotoli, la precarietà si impone stritolando modelli e lussi consolidati.
Naturalmente ha ragione Goffredo Fofi quando scrive sul Sole 24 Ore: «Roma è arrivata per ultima e per il momento lo sconta». Significa che, nonostante il sontuoso budget da 15 milioni di euro, la Festa deve accettare qualche compromesso sulle anteprime. E però anche La giusta distanza di Carlo Mazzacurati e L'uomo privato di Emidio Greco approdano all'Auditorium dopo essere stati considerati, diciamo, inadeguati da Müller. Magari sbagliando, perché non è che il giovane trittico veneziano abbia proprio brillato, anzi. In verità, sul film del padovano Mazzacurati, una storia di razzismo, amore e giornalismo ambientata nel prediletto Nordest, la faccenda non è chiara: al Lido spiegarono di averlo visto, pur apprezzandolo, in una versione provvisoria, senza finale, consigliando quindi al regista di prendersi il tempo necessario per finirlo; però Mazzacurati, in un'intervista, si prese una piccola vendetta dicendo che «avremmo anche fatto in tempo a terminarlo entro gli ultimi giorni di agosto, ma alla fine hanno fatto (i veneziani, ndr) la loro valutazione». Il titolo evoca «la giusta distanza» che il giornalista dovrebbe esercitare nel raccontare i fatti, in modo da risultare né troppo freddo né troppo coinvolto. Chi ha visto il film, dai contorni gialli, intriso di inquietudine padana, ne parla con interesse. Vedremo.
Il discorso vale anche per il terzo regista italiano in gara, Alessandro Capone, il cui film, L'amour caché con una febbricitante e devastata Isabelle Huppert, sfodera nella lingua e nella storia una dimensione francofona.

A Venezia piacque, ma non così tanto da prenderlo (c'era un altro film con la Huppert, dissero). Idem per Le pere di Adamo di Guido Chiesa e di Donne assassine di Herbert Simone Paragnani, entrambi ora nella megasezione Extra. In compenso, L'abbuffata di Mimmo Calopresti è un'autentica, assoluta, anteprima.

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