Frau Nein appare sempre più irremovibile. Un panzer sotto i cui cingoli continuano a finire triturati gli Eurobond e l’idea di una Bce a immagine e somiglianza della ben più agile Federal Reserve. E come un disco rotto, i no di Angela Merkel continuano a risuonare sui mercati con lo stesso effetto del gessetto sulla lavagna: Borse in picchiata, spread arroventati, aste dei titoli di Stato con rendimenti da incubo. Dall’inizio dell’anno l’indice Stoxx 600, quello che più di tutti misura il polso alle imprese europee quotate, ha lasciato sul terreno il 17,25%. Grosso modo, 750 miliardi di euro di capitalizzazione andati in fumo. Naturalmente, la perdita non è interamente imputabile all’intransigenza della Cancelliera nei confronti delle ricette anti-crisi. Ma, al tempo stesso, il calcolo complessivo dei danni dovrebbe appunto anche tener conto dell’impazzimento dei differenziali sui bond e dei tassi di interesse che i Paesi più coinvolti nella bufera finanziaria sono costretti a pagare. L’ultima asta dei nostri Bot, con i rendimenti dei titoli semestrali praticamente raddoppiati nel giro di un mese, ne è prova lampante. Nel bilancio andrebbero inoltre iscritte le manovre correttive via via varate dai governi, attraverso tagli alla spesa pubblica e sotto forma di inasprimenti fiscali che hanno sottratto potere d’acquisto ai consumatori.
Difficile dunque calcolare, con buona approssimazione, quanto ci siano costati i no della Germania. Anche se qualche analista azzarda una cifra attorno ai 400 miliardi. Una somma che equivale alle emissioni di un anno del Tesoro, ed è superiore ai 350 miliardi che, alla fine del 2009, avrebbero forse potuto mettere la Grecia al riparo dalle cannonate dei mercati. È proprio nel momento in cui Atene lancia l’sos che Berlino punta per la prima volta i piedi, opponendosi al suo salvataggio. Salvo poi ripensarci qualche mese dopo (siamo nell’aprile 2010). A scorrere le immagini di quest’ultimo biennio, senza l’occhio troppo miope che impone la cronaca dei fatti più recenti, si scopre infatti che i tedeschi si muovono a fisarmonica. Prima chiusi, poi aperti all’accordo condiviso. Stop and go. È successo, per esempio, anche in occasione della proposta di dotare il fondo salva-Stati di più munizioni, sottoscritta lo scorso 21 luglio dalla Merkel dopo che la Cancelliera aveva manifestato la proprio opposizione nel novembre 2010.
In linea teorica, ciò potrebbe anche accadere ora nella partita sugli Eurobond e in quella perfino più delicata che si gioca per mettere nelle mani della Bce quello che i mercati chiamano il «bazooka», intendendo la possibilità di fare dell’Eurotower un prestatore di ultima istanza, cioè di salvare chi deve essere salvato. Ne sono convinti quegli economisti e quegli operatori secondo cui la strategia della Merkel è quella di piegare i partner europei più indisciplinati sotto il profilo fiscale, a metter mano alle riforme perché tenuti sotto scacco dai mercati. Se così fosse, Berlino starebbe comunque giocando col fuoco. Del resto, nessuno può prevedere fino a che punto la corda può essere tirata senza che si spezzi. In ballo c’è la sopravvivenza dell’euro, e quindi di un intero sistema da cui anche gli stessi tedeschi traggono benefici. Che ne sarebbe delle esportazioni tedesche se di Eurolandia, che pesa per il 50% sui fatturati made in Germany, non restassero che macerie? Cosa racconterebbe la Cancelliera ai proprio elettori?
Non è invece da escludere che, in occasione del vertice dei capi di Stato del 9 dicembre, possa prendere forma quell’accordo di compromesso già nell’aria da qualche tempo basato sulla modifica dei Trattati europei. In cambio degli Eurobond, la Cancelliera potrebbe ottenere che gli Stati vengano sottoposti a una vigilanza più serrata sui conti, con una parziale perdita di sovranità e con sanzioni automatiche per chi non avrà i bilanci in ordine.
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