C'è un ragioniere a Palazzo Chigi che ha fatto bene i conti e ci sta togliendo dai guai. «A Monti dobbiamo il recupero della credibilità e del nostro ruolo nel mondo». E c'è un presidente al Quirinale che non si sente un re da parata. «Non taglio solo nastri alle inaugurazioni - dice Giorgio Napolitano - ma mi devo prendere delle responsabilità. Non voglio invadere il campo. Tuttavia, con tutto il rispetto per il governo, io deve sempre interpretare le esigenze del Paese e dare il mio contributo». E, se è il caso, anche di «pettinare» la testa dei tecnici: «Qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente, che sono due cose diverse».
No, per carità, non chiamatelo scontro e nemmeno gelo. Napolitano lo definisce «dialogo tra istituzioni», infatti i due in serata si vedono sul Colle per gli opportuni chiarimenti. Ma insomma, martedì lo spigoloso faccia a faccia sulla data delle elezioni, poi i sospetti sulla lista-Monti, ora la reprimenda sulla cultura: dopo un anno di idillio, la presa di distanza stavolta è chiara. «Io non eludo, non esito a criticare l'attuale governo». Si parla di arte, di istituti, di tagli, di soldi negati, sotto però si intuisce un ragionamento più ampio. «Non possiamo giocare con il rischio di fallimento - avverte - però non ci deve neanche arrendere agli automatismi della spending review, che serve per sprechi e distorsioni. Occorrono invece coraggio e capacità operative per liberarsi dal peso della burocrazia e da una foresta di leggi». E sì, il presidente vorrebbe tanto conoscerlo e dirgliene quattro a «quell'oscuro estensore di norme» che ha preteso l'immediata soppressione di dodici istituti di ricerca, un lavoro assurdo che peraltro «è finito nel cestino».
Peccato, perché le decisioni del governo dovrebbero essere «libere da certe incrostazioni». Contenere la spesa «non vuol dire che sia possibile una selezione» visto che la cultura «può essere un volano per lo sviluppo». Se si vuole guidare un Paese bisogna saperlo fare: «Scegliere è compito della politica, dire dei no e dei sì». Serve di stoffa. «Quello che oggi ci deve assillare è lo sviluppo produttivo, l'occupazione, la valorizzazione dei giovani».
Gli applausi a Napolitano seguono i fischi e le contestazioni di professori e ricercatori ai ministri intervenuti al teatro Eliseo per gli stati generali della cultura. «So ancora fare il comiziante», si compiace il presidente, che cerca di interpretare gli umori della gente, anche a costo di mettere il difficoltà il «suo» governo. E del resto nel giro di due giorni tra il Colle e Palazzo Chigi si è aperto un fossato. A dividerli, la possibilità che il Prof sia davvero tentato dalla discesa in campo per il Grande Centro e voglia condizionare la campagna elettorale, magari accettando le proposte di Casini, pronto a offrirgli la guida di un cartello dei moderati.
Poi, il calendario. Napolitano non vuole mandare l'Italia al voto con il Porcellum e nemmeno gestire la nascita del nuovo governo, perché crede di non fare in tempo a dare l'incarico prima della scadenza del suo mandato. Così avrebbe imposto al ministro dell'Interno Cancellieri il dieci febbraio per le regionali di Lazio e Lombardia. Monti all'inizio ha abbozzato, poi, dopo le proteste di Pdl e Udc e il rischio di una crisi di governo, ha impostato una felpata mediazione e punta a un election day a marzo.
Ci riuscirà? Il primo segnale non è incoraggiante. «Il voto anticipato? Di questo per ora non parlo».
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