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"Io, operaio della Lamborghini e la mia Utopia da 2,6 milioni"

L'imprenditore italo-argentino costruisce nella sua officina-atelier auto di lusso che sono quasi opere d'arte: solo 40 esemplari l'anno

"Io, operaio della Lamborghini e la mia Utopia da 2,6 milioni"

Per presentare l'ultima nata - Hypercar Utopia - l'imprenditore italo-argentino Horacio Pagani (1955) ha affittato il Teatro Lirico di Milano. In platea c'erano i clienti più affezionati, e che clienti, considerato che per poterti affezionare ad auto come queste devi disporre di un consistente conto in banca, il prezzo medio è di 2,6 milioni di euro per un'auto configurata, cui aggiungere le tasse. Sul palco c'era l'orchestra del Conservatorio Verdi che ha festeggiato il battesimo eseguendo musiche su temi composti in gioventù dallo stesso Pagani, che s'è esibito brevemente a un pianoforte Fazioli. Infine il colpo di teatro: come una dea ex-machina, da sotto il palcoscenico, è comparsa l'ultima Pagani. Si chiama Utopia, un gioiello scultoreo non per nulla esposto (lo scorso settembre) al Museo della Scienza e della Tecnologia. Le Pagani sono auto sartoriali, prodotte intorno ai 40 esemplari l'anno. Gli oltre 170 dipendenti, tutti presenti la sera dell'inaugurazione, operano nello stabilimento-atelier fondato nel 1998 a San Cesario sul Panaro, in provincia di Modena.

È venuto al Lirico guidando una sua auto?

«In genere viaggio con una Alphard Toyota, un'auto giapponese che penso di avere solo io in Italia, non è bella, ma quando passo per strada tutti si girano a guardarla come se fosse una Ferrari. In realtà mi piace perché è molto spaziosa, quindi posso dormire comodamente».

Vive a Modena e ha casa anche a Milano, qui come si muove?

«In bici, però bisogna fare molta attenzione ai binari del tram e al pavé. Anche a San Cesario vado in azienda in bici, oppure a piedi, mi alzo sempre molto presto così riesco a fare tutto».

Perché la scelta di Milano?

«Perché è dinamica, accade sempre qualcosa, io e mia moglie la viviamo nei fine settimana, da turisti, invertendo il flusso dei milanesi, che invece escono proprio in quei giorni. Ludovico il Moro si circondò dei migliori matematici, architetti, scienziati, artisti, un approccio che ha influito tanto sulla trasversalità così tipica di questa città, sulla vincente combinazione di arte e scienza, bellezza e funzionalità, che trova la sua massima espressione in Leonardo da Vinci».

Il suo idolo.

«Lo studio da quando sono un ragazzo. In Pagani non abbiamo inventato niente, abbiamo solo raccolto il messaggio di Leonardo, l'idea che arte e scienza possono camminare assieme, mano nella mano. Nel nostro piccolo cerchiamo di ispirarci a questo principio».

Per questo ha scelto un teatro per il lancio dell'ultimo modello.

«E in particolare il Lirico, l'ho visto e me ne sono innamorato all'istante. Ha le dimensioni giuste, compatibili con quelle della nostra azienda. Volevo uno spazio né grande né piccolo, dall'atmosfera raccolta. Abbiamo aggiunto solo una pedana rotante per assicurare la migliore visibilità possibile dell'auto».

Più il colpo di scena dell'auto che a un certo punto sbuca dal nulla.

«Di questo modello non si sapeva niente, neppure il nome, tanto che abbiamo registrato il marchio solo all'ultimo secondo».

Ha voluto che ci fosse un'orchestra classica. Che rapporto ha con la musica?

«Amo la musica di ogni genere, la ascolto da mattina a sera, ho sempre le cuffie nelle orecchie. Pensi che ho un pianoforte anche nell'officina, lo suono da autodidatta, non so neppure leggere le note, vado a orecchio. Anche in Argentina avevamo un pianoforte, e l'ho tuttora, dato che ogni tanto mi collego col telefono per vederlo. Mia mamma, sarta, era appassionata di questo strumento, aveva le mani d'oro».

La mente va alla pampa argentina, a Casilda, la città dove è cresciuto e che ha lasciato nel 1983 per Modena. Cosa porta con sé dell'Argentina?

«Tante cose, a partire dagli affetti. Lì ho miei amici storici, sono state le prime persone in assoluto a conoscere i dettagli di Utopia, a ricevere foto e descrizioni. Siamo legatissimi. Dell'Argentina, Paese di cui vado orgoglioso, ho mantenuto l'abitudine di bermi un mate al giorno. Ma, al di là di questo, né guardo troppo indietro né vivo in funzione del traguardo futuro, mi piace godermi i singoli passi del tragitto. Tanti sono felici solo quando raggiungono l'obiettivo finale, temo che così disperdano le energie perché sono perennemente in corsa e in attesa».

E in ansia...

«Beh, anch'io ho i miei momenti di ansia, però sto cercando di lavorare sulla mia mente: a ogni risveglio al mattino mi dico che quello sarà l'ultimo giorno della vita, dunque voglio assaporare ogni minuto senza sprecare nulla ed evitando inutili complicazioni. È un atteggiamento che mi dà serenità».

Cosa l'ha portato a questo, una lettura, un incontro speciale...?

«Penso si sia accesa una scintilla».

A Casilda sognava Modena. A 14 anni con un amico costruisce due mini moto usando un vecchio motore. A 17 realizza un veicolo partendo da un kit di carrozzeria in plastica. A 23 crea la Pagani Horacio Design. A 28 attraversa l'Oceano per disegnare auto in Lamborghini. Invece...

«Invece, a causa della guerra del Golfo, c'erano venti di crisi, quindi il ruolo promesso era saltato. Ero in Italia, quindi mi diedi da fare lavorando in un vivaio, poi come saldatore. Per fortuna sapevo usare le mani e, dopo qualche mese, venni assunto in Lamborghini come operaio di terzo livello. Faticavo però ad adattarmi ai ritmi imposti dai sindacati, che per esempio non consentivano di lavorare dopo le 5 di sera, così mi misi in proprio come artigiano, lavorando in azienda ma con partita Iva, all'epoca si poteva».

E a sue spese si comprò un'autoclave.

«Ero riuscito a convincere una banca a concedermi un mutuo da 35 milioni di lire. Volevo lavorare con materiali compositi e all'epoca Lamborghini non credeva molto in questa tecnologia, quindi comprai l'autoclave, che tra l'altro abbiamo ancora in officina».

Più che officina, sembra un atelier.

«Dove si continua a lavorare con le mani, vorrei specificarlo».

In un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro i lavori manuali sono visti con sufficienza. Un paradosso.

«Direi un grande errore. Anzi un disastro. È la cosa peggiore che possa capitare nell'Italia che vive di artigianato. Già abbiamo perso grandi aziende, praticamente dimezzate, contro una Germania che invece è andata aumentandole. Ora rischiamo di perdere anche le piccole e le medie imprese».

Fare impresa in Italia, si sa, è un'impresa...

«In Pagani si imparano tante cose, facciamo le auto dalla A alla Z. Mi verrebbe da pensare che potrebbero esserci miei dipendenti che con regolarità si rendono autonomi creando una propria azienda, e dunque nuovi posti di lavoro. Ma questo accade raramente, al massimo uno si sposta per 100 euro in più, ma non lancia niente di suo. Un grande spreco».

Una tara.

«Il sistema è troppo complicato, burocratico e demotivante. Però ho anche la sensazione che questi nostri giovani siano come bicchieri di cristallo ai bordi del sistema: se cadono, si frantumano. S'aggiunga il fatto che manca il senso dell'attesa dei risultati, si vorrebbe fare qualcosa rapidamente. Ci si aspetta di fare soldi in un baleno».

Invece ci vuole tempo.

«E soprattutto tanto lavoro».

Il lavoro è in crisi. Di qua posti vacanti, di là disoccupazione. Domanda e offerta faticano a incontrarsi.

«Non solo. Mai come oggi dobbiamo lavorare tanto per motivare le persone, per creare interesse, eppure tutte queste attenzioni non sembrano mai bastare. E non è questione di soldi, manca proprio l'amore per il lavoro, la passione. Non passa l'idea che il lavoro dà dignità. Per tanti il lavoro è al secondo posto, per cui si preferisce un bel fine settimana a un impiego che magari ti impegna qualche sabato».

Un problema globale.

«Giorni fa ero a casa di Tim Cook (presidente di Apple ndr), siamo molto amici, trascorriamo le vacanze assieme, quando finisce il concorso californiano Pebble Beach andiamo a casa sua, e quando lui viene in Italia sta da me. A Cupertino, Apple ha creato un'azienda bellissima, a forma di anello, avveniristica, i dipendenti non la frequentano dall'inizio della pandemia. Ora l'azienda vuole tornare al lavoro in presenza, ma si stima che almeno 500 persone rinunceranno all'impiego perché costrette a rinunciare allo smart working, in sintesi preferiscono lasciare il lavoro».

E siamo negli Usa, il Paese dalla proverbiale etica del lavoro.

«Nei giorni in cui ho presentato la Pagani Utopia ho incontrato tanti miei clienti, perlopiù imprenditori da ogni parte del mondo. Tutti si stanno misurando con questi problemi. In Italia poi il reddito di cittadinanza non ha certo aiutato, anzi, semmai ha peggiorato la situazione. Il nostro responsabile di personale dice che la gente viene, si informa, in tanti concludono che in fin dei conti conviene rimanere dove si è, anche se ai limiti della sopravvivenza».

Il bisnonno lasciava Appiano Gentile (Como) per l'Argentina dove avviava una panetteria poi passata al nonno quindi a suo papà. Il profumo del pane cosa rappresenta per lei?

«Ah... favoloso. Mi sento a casa. La mente va a papà, fu lui a instillarmi l'amore per il lavoro, la passione, la serietà, il rigore. Con questa attitudine, vai da ogni parte. Mi insegnò che il cliente non è quello che entra in negozio la prima volta, bensì quello che torna la seconda e la terza».

In casa come era vissuta l'auto?

«Premesso che in generale gli italiani amano le auto, la mia famiglia era appassionata però, dati i mezzi, aveva solo veicoli per consegnare il pane. Fin da piccolo sono sempre stato attratto dalla meccanica e in particolare da quella dell'auto, via via scoprii che con l'automobile si poteva realizzare il sodalizio tra estetica e tecnologia. Dai 10 anni in su, iniziai a divorare riviste italiane di settore, vivendo una passione in bianco e nero, perché sia le riviste sia la tv erano in bianco e nero, tanto per intenderci per il mio occhio la Ferrari non era rossa. Ma forse questo ha messo in moto ancora di più la mia fantasia. Avevo 12 anni quando a uno dei nostri pranzi domenicali, annunciai a tutta la famiglia che da grande avrei disegnato auto speciali».

Come la prese suo padre?

«Pensava, ma soprattutto sperava, che fosse un'infatuazione del momento. Non credeva in questo sogno, però ne sono felice perché la sua ritrosia mi stimolò ancora di più a impegnarmi per conquistare la sua approvazione finale».

Potrebbe tenere un corso sulla determinazione. Prima regola.

«Non saprei, è un qualcosa che mi viene da dentro. Quel che suggerirei a ragazzi con idee imprenditoriali è di seguire la propria intuizione senza avere dubbi, anzi con grande convinzione. Gli sbagli sono utili e non vanno drammatizzati, basta che però non vengano ripetuti. E poi, cosa ci può fermare, un muro? Anche un muro, per quanto sia alto, lo puoi superare. Penso che ci sia sempre la possibilità di risolvere i problemi. Una soluzione la si trova sempre».

E ciò che è insuperabile?

«Lo accetti».

La auto Pagani sono l'antitesi dell'utile. Sono opere d'arte, il lusso dei lussi. Eppure lei è cresciuto in una famiglia che per tre generazioni ha fatto il pane, prodotto fra i più necessari.

«Vero, una Pagani non è necessaria, ma non lo sono neppure la montagna di scarpe, borse e oggetti vari e sovrabbondanti di cui riempiamo le nostre case. Il lusso non è necessario se non per l'animo. Oscar Wilde diceva che possiamo fare a meno di tutto, tranne che del superfluo.

Aforisma che faccio mio».

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