«E io pago! E io pago!». Totò. 47 morto che parla.
Dodici o tredici anni fa fui chiamato a inaugurare una statua di Totò in una strada secondaria del quartiere dove abito, il Vomero. Questa statua giaceva forse da trent'anni in un deposito del Comune di Napoli, nell'attesa di una degna collocazione. L'artista che l'aveva scolpita intendeva erigerla nella Sanità, il rione che ha dato i natali al grande attore napoletano. Passarono gli anni, senza che nessuno prendesse una decisione. Allora lo scultore si spazientì, e rinunciando al progetto originario, riuscì a far collocare il bronzo al Vomero.
All'inaugurazione c'era anche la figlia di Totò, venuta espressamente da Roma, dove vive. Io dissi due parole di circostanza, ma naturalmente tutti gli occhi, i microfoni e i flash erano puntati su Liliana de Curtis. A chi le fece notare che Totò non «c'azzeccava» niente col Vomero (quartiere tanto borghese quanto popolare è la Sanità, e che comunque il principe della risata nella sua vita e sul set nominò poco o niente), Liliana rispose che Totò è di tutti i napoletani: di quella della Sanità come di quelli di Santa Lucia, di quelli dei Quartieri spagnoli come di quelli - appunto - del Vomero. Disse anche che l'amore che il padre portava alla sua città era ricambiato, ed era per questo che veniva così tante volte a Napoli. Oggi, dopo la profanazione della tomba di Totò (tra l'altro, meta di preghiere e di pellegrinaggi. Più d'uno viene qua per chiedere grazie) Liliana de Curtis esclama: «Sono indignata, sconcertata. Napoli non può fare questo a Totò» e chiama «gente maledetta» chi ha sfregiato la tomba del padre, rubandone lo stemma.
Queste parole (queste maledizioni) non suonano nuove alle mie orecchie. Negli anni Novanta ebbi l'onore di essere invitato a casa di Bruna Catalano Gaeta, la figlia di E. A. Mario. Ero imbarazzatissimo: ogni mobile, ogni suppellettile, ogni angolo della casa era una testimonianza del passato glorioso del musicista: foto, pianoforti, autografi, lettere alle figlie, testimonianze d'affetto da tutto il mondo per il poeta del Piave. A un certo punto gli occhi di Bruna si accesero come faville, una sua mano si attaccò alla mia come un artiglio quando mi mostrò un ritaglio di giornale in cui si dava notizia che alla tomba di E. A. Mario, nel Recinto degli Uomini illustri al cimitero di Poggioreale, avevano rubato uno dei due bassorilievi di bronzo che adornavano il lato sinistro del monumento e che raffiguravano una veduta del Golfo di Napoli con le copielle (gli spartiti) delle sue più belle canzoni. A Napoli, i Grandi sono sepolti quasi tutti a Poggioreale, non tutti però al Recinto degli Uomini illustri. Non Totò, per esempio (che è al Cimitero del Pianto, dove modestamente ci sarà anche il sottoscritto), né Caruso, Eduardo Scarpetta, Nino Taranto, tanto per fare dei nomi. Al Recinto ci sono altre grandi personalità: Benedetto Croce, Francesco de Sanctis, Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani. Tombe che versano nel più totale degrado. Chi vi entra deve scansare un cassonetto dell'immondizia, dal quale debordano liquami e fiori sfatti. Di altre tombe non c'è il nome, evidentemente strappato.
Alcuni anni fa, a chi dal marciapiede di vico Pero (zona Capodimonte) chiamava a gran voce la proprietaria della casa dove spirò (1837) Giacomo Leopardi, speranzoso di visitare almeno una stanza, una vecchia signora, affacciandosi, gridava: «Iatevénne! Nun ce sta cchiù nisciùno!».
Vedi Napoli, ma cerca di non morirci.
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