Franco Fayenz
da Venezia
Nel foyer del Teatro La Fenice campeggia un grande manifesto giallo un po' consunto dal tempo. Lo stile dell'annuncio è datato ma significativo. «Teatro La Fenice, 14 novembre 1971, ore 17.30 e 21.30. Concerto di musica jazz, Miles Davis e il suo complesso». Seguono i nomi dei sette musicisti fra i quali c'è Keith Jarrett al piano elettrico e all'organo. Sono trascorsi 35 anni. Adesso Jarrett è di nuovo qui per un recital di pianoforte solo, voluto da Veneto Jazz nel quadro delle celebrazioni di Miles Davis (15 anni dalla morte, 15 dall'ultimo concerto italiano a Castelfranco Veneto). Non è un concerto commemorativo, guai a dirlo. Il divo del pianoforte si arrabbierebbe. La sua presenza è il vertice delle partecipazioni dei maestri (Chick Corea, Jimmy Cobb, Herbie Hancock, Kenny Garrett) che in vari tempi collaborarono con Jarrett.
Il concerto è preceduto da un episodio singolare. Una stentorea voce femminile mette in ansia il foltissimo pubblico elencando due volte in italiano e in inglese (quindi quattro volte) tante azioni che non si possono compiere in teatro - il divo non le permette - e definisce il concerto «un evento storico». No, non ci siamo proprio. La Fenice è uno dei più celebrati teatri del mondo (per noi anche il più bello) e si trova in una gemma universale come Venezia. Il concerto di Jarrett è uno dei tanti avvenimenti importanti che si svolgono nel prezioso salotto settecentesco finalmente ricostruito. Ad esso non si addice una simile caduta di gusto che finisce per danneggiare lo stesso Jarrett, forse ispiratore del pistolotto. Di fronte a un uditorio imbarazzato e silente per oltre venti minuti, Jarrett si ferma e dice: «Per favore applaudite, fate qualcosa. Devo capire se sto lavorando bene o male». Soltanto allora scatta il primo applauso clamoroso e liberatorio.
Il concerto decolla su improvvisazioni di un tipo informale non frequente in Jarrett. Sono convincenti, eleganti, articolate come i tempi di una sonata e accompagnate più che mai dai soliti mugolii e movimenti d'amore verso il pianoforte. Il protagonista si concede una breve pausa e un bicchiere d'acqua (negli anni Novanta, quando con le sue maratone solitarie ci rimise la salute, non lo faceva), poi riprende con un tempo lento e poi ancora con una sequenza moderata mentre cresce l'entusiasmo dell'uditorio.
Nella seconda parte si ha l'impressione di assistere a un altro concerto. Tutto diventa più semplice e leggibile. Jarrett si avvicina come non mai a Dabussy, a Ravel e rivisita attimi magici del proprio passato per i quali molti ammiratori nutrono nostalgia (ricordate In Front, Osaka, il primo movimento di Koln Concert?). A un tratto si alza, scompare fra le quinte e ritorna con una breve e dolce partitura dall'operetta Il Mikado di William Gilbert e Arthur Sullivan (Londra 1885). Esclama: «Devo leggerla, così capirete che tutto il resto è improvvisato». La prova, per la verità, non era necessaria né richiesta. Finisce con un blues molto intenso e perfino gospelizzato. La platea strappa tre bis che secondo la prassi jarrettiana sono brani noti agli intenditori come My Wild Irish Rose dal cd dedicato durante la malattia alla moglie Roxanne, Stella By Starlight e Blossom.
A teatro chiuso, nella piazza antistante fervono discussioni. L'opinione prevalente è che mentre il celebre trio di Jarrett è talvolta ripetitivo dopo oltre vent'anni di attività, il pianista pare stia ritrovando una sua strada maestra, più semplice e comunque lontana dai logoranti exploit di solo pianoforte. Resta da accertare che cosa conservi di affine ai comuni mortali questo musicista di 61 anni che quando viene in tour in Europa, soggiorna esclusivamente in un albergo di Nizza e noleggia un aereo privato per arrivare nel luogo del concerto poche ore prima dell'orario della performance.
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