Cultura e Spettacoli

L’idillio spezzato di quell’Italia d’Egitto

I primi erano giunti con la campagna napoleonica. Contadini. imprenditori, artigiani, sarte: «Il chilometro d’oro» è la storia della loro epopea

«Sono nato ad Alessandria d’Egitto nel 1939, dove ho frequentato le scuole italiane fino alla maturità scientifica. Nel 1956 me ne sono dovuto andare. Fishman è la voce della nostra imperitura malinconia e di un incantesimo spezzato dalla stolidità di politici che hanno costretto noi italo-egiziani da tre generazioni a un esodo forzato che ancora ci rattrista». (Lettera firmata). «Sono nata al Cairo e ho “bevuto” il libro tutto di un fiato. Ho ritrovato un mondo che pensavo morto. Invece era solo assopito dentro di me. Inutile descrivere le emozioni, i mille ricordi, le voci di noi bambini quando giocavamo...». (E-mail firmata).
Da quando è uscito Il chilometro d’oro. Il mondo perduto degli italiani d’Egitto (Guerini e Associati, pagg. 231, euro 18, prefazione di Magdi Allam), il computer di Daniel Fishman è inondato dalle e-mail. Neppure lui se lo aspettava. Saggista e quotato esperto di comunicazione, per una decina d’anni ha alternato il lavoro abituale a quello di scrittore per affrontare un argomento per lo più rimosso da quegli italiani, i cosiddetti talianin, costretti ad abbandonare l’Egitto allora sotto protettorato britannico, ma anche la propria storia, i beni e i ricordi. Un idillio spezzato nel 1956 allo scoppio della guerra di Suez, quando tutti gli stranieri del Cairo «vennero sputati come semi di cocomero da Nasser fuori dal Paese in cui vivevano», non prima però di aver sperimentato, almeno alcuni di loro, l’umiliazione dei campi di internamento. Su due piedi, imprenditori, intellettuali, tecnici, figli degli operai del canale di Suez, seguaci di Mussolini e antifascisti, dovettero lasciare quella che consideravano la loro terra, quando ormai lo scontro tra il panarabismo di Nasser e gli strascichi della politica coloniale britannica e francese avevano preso una direzione irreversibile.
Di notte, nel silenzio del suo studio, l’autore ha trascorso ore e ore a immaginare un mondo scivolato nell’oblìo, quell’Egitto dai mille volti che nella prima metà del Novecento rappresentava un modello esemplare di pluralismo etnico e democrazia: musulmani, copti, turchi cattolici, ciprioti, inglesi, ebrei, francesi, marocchini, maltesi, polacchi, circassi, ortodossi, rumeni, russi, sudanesi e i talianin, tutti insieme appassionatamente in una sorta di laboratorio ante litteram che già allora, nonostante le fisiologiche contraddizioni, anticipava scenari possibili di un’integrazione riuscita. Lo stesso Fishman discende da una famiglia di ebrei cosmopoliti: padre askenazita mitteleuropeo, madre sefardita livornese, per mezzo secolo hanno vissuto in quel chilometro d’oro magnificamente descritto dall’autore, l’area internazionale e benestante del Cairo dove si concentravano gli stranieri, i ristoranti e gli hotel di lusso, i cinema e i teatri, oltre alle attività commerciali. «Mais non, ma no, don’t worry, c’èst l’Egypte», sussurra un personaggio del libro mentre allude al Paese che nel corso dei secoli ha visto passare invasori, convertitori, navigatori e commercianti di varie origini e provenienze.
Oltre all’ambiente caleidoscopico egiziano, Fishman ricostruisce - senza retorica o pietistica nostalgia - la realtà di quei circa 70mila italiani che hanno contribuito a rendere grande l’Egitto: «Sono arrivati a ondate - spiega l’autore che per anni ha setacciato archivi e raccolto testimonianze -. Le prime immigrazioni risalgono a quando Napoleone era impegnato a fiaccare gli inglesi durante la Campagna d’Egitto. In seguito, con l’apertura del Canale di Suez, non furono solo le élites ad arrivare, ma una fiumana di contadini, braccianti e piccoli artigiani alla ricerca di un futuro migliore. In mezzo a loro anche balie, cuoche e sarte, partite a migliaia per trovare nella ricca città portuale occupazioni e stipendi impensabili nei piccoli centri di campagna da cui provenivano. Ci fu poi un ulteriore flusso minore, comunque significativo, di antifascisti negli anni Trenta».
E sono molte le tracce che gli italiani hanno lasciato all’ombra delle Piramidi, a partire dagli uffici postali, il censimento, la riorganizzazione della polizia egiziana, la creazione della Compagnia dei telefoni e molto di più ancora. A distinguersi nelle grandi città mediorientali furono anche gli architetti, abilissimi nel trasformare le polverose strade in eleganti boulevard dall’impronta europea. Non solo: ancora oggi c’è chi ricorda con orgoglio quei talianin che hanno fatto fortuna una volta rimpatriati, tra i quali Giuseppe Ungaretti, Anna Magnani, il futurista Martinetti e la cantante Dalida.
Fishman descrive inoltre la Diaspora degli ebrei italiani in Egitto, una comunità effervescente che ha contribuito non poco a dare smalto alla società egiziana. I primi a giungere ad Alessandria e al Cairo furono gli ebrei toscani e dello Stato Pontificio a cui si sommavano gli ebrei greci e quelli d’Oriente. Attraverso la figura di Mondo Mosseri, lo scrittore narra un microcosmo denso di umori e sapori. Esteta, dandy e bon vivant, Mosseri nacque al Cairo nel 1900. Nessuno meglio di lui rappresentava l’essenza di quel cosmopolitismo flâneur, un po’ pigro e raffinato, dove l’ebraismo sefardita si fondeva con un’italianità «mediorientalizzata» e un europeismo a sua volta contaminato nell’inedito trapianto geografico.
Impegnato in un business di cavalli, grande giocatore di taula (backgammon), Mosseri faceva parte di un milieu ebraico di un certain niveau. La sua fu la vita di chi frequentava le migliori scuole e gli ambienti più selezionati, un idillio spezzato dagli eventi. Tutto si sgretolò di colpo, con ferocia tempistica per molti inaspettata: le tutele agli europei, gli equilibrismi del sistema coloniale britannico, la monarchia sempre meno solida, la politica interna e non ultima la guerra mondiale e i suoi riflessi sul Cairo. Infine la rivoluzione nasseriana. Alcuni protagonisti, dal 1941, finirono in un campo d’internamento che i britannici avevano destinato agli italiani. Altri ancora, tra cui ebrei e comunisti, furono confinati altrove in concomitanza alle guerre tra Israele e i Paesi arabi.
Oggi di quell’Egitto frizzante non è rimasto nulla: sparite le belle signorine dalle mises che seguivano i dettami della moda - vitino di vespa e gonna campana -; svilita e ridimensionata la mitica pasticceria Groppi, la prima ad avere la panna montata e le inservienti donne, non resta che la memoria riemersa grazie all’impegno di Fishman. Oltre a colmare un vuoto storiografico, il libro è la testimonianza preziosa di una straordinaria esperienza civile ma anche di un destino crudele di chi ha perso il proprio mondo. «Il libro - conclude Fishman, ancora incredulo del riscontro ottenuto - ha avuto il merito di metterci in contatto fra noi. Adesso bisognerebbe riconoscere le opere collettive realizzate dagli italiani in Egitto nel corso di un secolo e mezzo. Per questo vogliamo organizzare un incontro con il presidente Ciampi». I talianin superstiti e i loro discendenti non aspetterebbero di meglio.
m.

gersony@tin.it

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