L’indifferenza di chi l’ha vista: «È una carcerata come tante»

Il parroco dell’oratorio: «Mi piace avvicinare la gente ai detenuti». I passanti: «Gli assassini di Desirée, quelli sì che ci spaventano liberi»

L’indifferenza di chi l’ha vista: «È una carcerata come tante»

nostro inviato da Boffalora (Brescia)
Caldo e zanzare nel piazzale della chiesa. Il parroco, maglietta e pantaloni blu, controlla alcuni operai che caricano su un autocarro gli strumenti di un'orchestrina. Vuote le panchine di fronte, chiuso l'ufficio postale a fianco, deserta la falegnameria sul retro, silenziosa la scuola media «De Filippo Tovini» sull'altro lato, sbarrato il bar del dopolavoro Acli. E nessuno neppure sui campi di calcio e pallavolo dove domenica mattina si sono svolte gare molto particolari, quelle tra ragazzi del paesello e 13 detenuti del carcere di Verziano. La partita del cuore. La partita di Erika.
Sonnecchia Buffalora. Domenica ha richiamato l'attenzione di tutta Italia perché Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che cinque anni fa con il fidanzato Omar massacrò la mamma e il fratellino, per la prima volta ha messo piede fuori dal carcere proprio in questa frazione di Brescia circondata da campagne e tangenziali. Ma quelle poche ore di aria libera non scuotono più di tanto gli animi. In paese se ne parla poco, l'unico edicolante non ha venduto una copia in più del solito. Del resto, le oltre 50mila copie del Giornale di Brescia riferiscono la notizia in 20 righe all'interno.
«Mah, fosse stato uno dei ragazzi di Leno...», mormora un passante: si riferisce agli accoltellatori di Desirée Piovanelli, un omicidio compiuto pochi chilometri più in là. Allora sì che si sarebbero indignati. Invece il delitto della ventiduenne piemontese, che sta scontando la condanna a 16 anni in un carcere femminile alle porte di Brescia, è orrendo ma lontano. Erika è ritratta bella e sorridente nelle prime foto scattate dopo il 2001. C'è una certa comprensione. «Si giudica l'azione ma non la persona, che va recuperata sempre», sintetizza don Marco Marelli, il parroco. Prevale il senso di solidarietà in una provincia che ha sfornato papi, cardinali e potenti opere sociali.
Benché la notizia fosse trapelata sul quotidiano Il Brescia, don Marelli non sapeva che avrebbe ospitato Erika, come lo ignorava Alberto Saldi, il responsabile regionale del «Progetto carceri» Uisp (Unione italiana sport per tutti) e dell'iniziativa «Oltre il muro». Se la sono trovata fra i 13 detenuti in possesso del permesso speciale rilasciato dal giudice di sorveglianza su richiesta del direttore della casa circondariale, Maria Grazia Bregoli. «A Buffalora nessuno sapeva niente e nessuno si è scandalizzato - dice il prete -. C'erano un centinaio di persone tra giovani, genitori, animatori, i 30 agenti della polizia penitenziaria e i reclusi. Hanno assistito alla messa delle 9,30, hanno giocato e mangiato assieme, poi abbiamo cantato, io ho suonato la chitarra. Sono ripartiti verso le 16».
La parrocchia di Buffalora ha da anni rapporti con i due penitenziari bresciani, un gruppo di ragazzi visita regolarmente i reclusi e l'anno scorso hanno portato tra le mura proibite il musical «Hair». «È la seconda volta che apriamo l'oratorio a questa iniziativa - spiega don Marelli - abbiamo i volontari e le strutture. A me interessa che i parrocchiani perdano i pregiudizi verso i carcerati, li vedano come persone, e sono soddisfatto». Saldi teme invece che il clamore del caso Erika offuschi il prodigarsi dell'Uisp verso i detenuti: «A Canton Mombello c'è un torneo di calcetto da 25 anni, a Verziano da 20 con agenti, detenuti ed esterni, ora c'è la pallavolo per le recluse. Cose normali che favoriscono il reinserimento».
Non ne sapeva niente neppure l'avvocato di Erika, Mario Boccassi. «Le cose ordinarie diventano straordinarie quando c'è di mezzo lei. Qualcuno l'ha descritta “solare e spensieratà”.

Non è così, una bella immagine non sempre fotografa la realtà. E non è una piccola boccata d'aria o una partita di pallavolo la cosa più importante». Ma il recupero di Erika è cominciato? «E chi lo sa? Io sono un avvocato, non faccio né lo psicologo né il magistrato».

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