Politica

L’Unione si sfascia sul bilancio A Bruxelles è tutti contro tutti

No di Olanda e Gran Bretagna sui rimborsi. Parigi e Berlino attaccano Blair

Alessandro M. Caprettini

nostro inviato a Bruxelles

E ora che, come ha ammesso cupamente Jean Claude Juncker «l’Europa non è in crisi, ma in crisi profonda»? Partono gli interrogativi, ma a tener banco sono soprattutto le polemiche. Qualcuno, incolpando Chirac, ha rievocato Waterloo: era proprio il 18 giugno di 190 anni fa. Il mitissimo premier del Granducato, ormai vicino all’addio della guida semestrale, se l’è invece presa di brutto con Tony Blair, facendo sapere che lui non ci sarà, giovedì prossimo, quando il premier inglese scenderà nuovamente nella capitale belga per illustrare il programma dei suoi 6 mesi di guida della Ue. Schröder ha citato anche gli olandesi tra gli «egoisti» che, ormai sul traguardo, hanno invalidato la corsa. E nei corridoi filtrano spifferi sui veti minacciati anche da svedesi, finlandesi, spagnoli.
Caccia al colpevole dopo 15 ore di dibattito e una lunga nottata in bianco. Uno choc ancor più pesante di quello del “no” franco-olandese alla Costituzione. Il “miracolo” che sembrava a portata di mano, non c’è stato. E se è vero che lo scontro più evidente è stato quello tra francesi e inglesi, con i secondi a sostenere che l’Europa deve cambiare il suo bilancio, svecchiandolo dalle antiquate e inutili propensioni agricole, e con Chirac a replicare seccamente e in toni aspri come «l’agricoltura è ancora un grande successo visto che fa dell’Europa un esportatore netto», è anche vero che sotto il pelo dell’acqua si son giocate altre decine di contese.
Balkenende per esempio, che già il giorno prima aveva inveito contro l’idea di proseguire le ratifiche («Questa Costituzione è morta! E comunque la pensiate il mio Paese non la ratificherà mai!») anche l’altra notte si è fatto sentire: «Paghiamo in proporzione più di tutti gli altri - puntava i piedi il leader olandese - e dunque o ci restituite 1,5 miliardi di euro l’anno in più del previsto o non avrete mai il nostro sì!». Lo svedese Goran Persson lo seguiva sulla stessa strada, affiancandosi poi a Blair nella richiesta di una «diversa struttura di bilancio, più impegnata sulle innovazioni che sulle campagne» che evidentemente non si poteva creare in un battibaleno. Anche i finlandesi affilavano le unghie. Con Zapatero che, ammesso come la Spagna debba avviare la marcia per divenire contribuente netto rinunciando alla montagna di euro fin qui strappata a Bruxelles, minacciava però il veto ritenendo i tagli messi a punto, troppo onerosi.
Dunque dopo tanti tentativi di tessitura, Juncker gettava la spugna. Si presentava in sala stampa ed esternava, a tratti irato, un cocente malumore. Tirava bordate pesanti, pur senza nominare direttamente Blair. Rivelava di essersi addirittura vergognato «quanto i dieci nuovi ci hanno detto, uno dopo l’altro, di esser disposti a sacrifici rispetto quanto loro spetta, pur di trovare una intesa». Ironizzava sul fatto di dover andare a Washington domani, assieme a Barroso, per spiegare «forza e vigoria» dell’Europa. E, proprio al termine, aggiungeva una postilla che la dice lunga sulla profondità e l’asprezza della frattura. Non tanto e non solo la divisione dei quattrini, ma una diversa filosofia: «Qui si sono misurate due visioni opposte dell’Europa. Quella di chi la vuole più mercantile e quella di chi la reclama più politica».
Riemerge finalmente il vecchio e mai sciolto nodo dell’«essere» stesso della Ue. Già De Gaulle, anni or sono, aveva sollevato il problema. Il ministro degli Esteri tedesco Fischer, nel maggio del 2000 - sorprendendo un po’ tutti - lo aveva ripescato chiedendo di stabilire «fino a dove e per cosa» si dovesse costruire la casa comune. Dall’altra notte il tema ripiomba sulle istituzioni comunitarie. E il tutto accade alla vigilia ormai della presa di comando da parte degli inglesi. Blair non fa mistero di voler rimodellare il bilancio in senso nuovo, disposto magari anche a rivedere il suo “sconto” se passerà la sua linea, e negando che la Gran Bretagna sia isolata come si tenta di far credere (ma è un fatto che erano in 24 a reclamare la fine del privilegio ottenuto dalla Thatcher a suo tempo). Crede che, dopo i giorni dello scontro, seguiranno altri di ragionamento più sobrio. Il suo ministro degli Esteri Straw del resto ha osservato con tranquillità che quanto non è riuscito a fare Juncker proverà a farlo Londra nei prossimi sei mesi. Ma in pochi tra i vecchi soci credono che si possano indossare in contemporanea le vesti di giocatore e croupier. E comunque, al di là della spartizione del bilancio è riemersa in tutta la sua imponenza la domanda sul fino a dove e per che cosa. Stavolta aggravata da una novità, ben evidenziata dal ministro degli Esteri francese Douze-Blazy: «Il problema? Semplice.

Chi paga l’allargamento?».

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