Lasciare la mancia? Solo se ne vale la pena

Caro Granzotto, in questo periodo usciamo spesso e, al momento di pagare, sono «combattuto» vedendo che pochissimi lasciano la mancia. Inoltre, dato che si paga «pane e coperto» o il «servizio», forse ci si può ritenere liberi di non lasciare più di qualche spicciolo. L’esperienza fatta all’estero insegna che la «gratuity» è sacra, in quanto parte integrante della paga dei camerieri. E da noi come ci si regola nelle cene vacanziere?


Per calmierare il mercato delle mance, alla fine degli anni ’50 si cominciò a sostenere, nelle varie rubriche destinate al saper vivere, che lasciarne una «grossa» era cosa volgare. Il vero signore non eccedeva mai, consapevole del fatto che, facendolo, il destinatario lo avrebbe immancabilmente giudicato come si giudicano i cafoni, con disprezzo. La crociata - non a favore del bon ton, come poteva sembrare, ma a difesa dei consumatori - si era resa necessaria per via dello stuolo di nuovi ricchi (erano i tempi del leggendario boom economico) i quali si deliziavano nell’ostentare il raggiunto benessere ingioiellando e impellicciando le loro signore come Madonne di Pompei, scorrazzando con la fuoriserie, facendosi l’amante alla quale regalare subito il «quartierino» e lasciando, in alberghi, ristoranti e night club, quelle che allora si definivano «mance favolose». Con gran gioia dei camerieri, i quali tutto potevano sentirsi ma non certamente umiliati e che non disprezzo, ma sincero apprezzamento riservavano al generoso donatore. Caso mai succedeva il contrario, che il personale, cioè, giudicasse dei pezzenti, dei morti di fame coloro che lasciavano una mancia nella norma. Facendo spesso trasparire, assai visibilmente, il loro disappunto. Col tempo, le cose si sistemarono da sole e il mercato delle mance si assestò su quel dieci-quindici per cento che tuttora regge. Certo, i dispensatori di «mance favolose» seguitano a prodursi nei loro numeri, ma senza più condizionare il fixing (con le mance che lascia il sultano dell’Oman, attualmente nostro gradito ospite, e son paccate di migliaia di dollari, non c’è gara).
Poi ci si è messo l’euro. Se ai bei tempi della lira ne lasciavo diecimila di mancia, oggi devo lasciare dieci euri (valore percepito) o cinque (controvalore reale)? Se in pizzeria ne lasciavo mille, oggi ne lascio uno o cinquanta centesimi che poi il cameriere me li tira addosso? Mancista come del resto tutti i connazionali, non manco di lasciarla anche al bar, per un caffè. E cara mi costa rifiutandomi di rappresentarla con offensiva minutaglia metallica al di sotto dell’euro. La mancia dunque e per colpa del dannatissimo euro è tornata a rappresentare un problema e io capisco, caro Giordano, le sue ambasce. Per quanto mi riguarda, non avendola mai ritenuta un «pourboire», come la chiamano i francesi, un «tié, prendi e vatti a fare un bicchiere di vino», ma una sorta di premio di produzione, il suo ammontare cresce e decresce in relazione alla prestazione. Del cuoco, del cameriere, dell’eventuale sommellier e dell’eventuale maître. Un maître che mi riceve col sopracciglio alzato, ad esempio, con quell’arietta sussiegosa che certi maîtres inalberano quando vanno incontro a uno che non si chiama, minimo, Rockefeller, fa precipitare il tasso di mancia a livelli da terzo mondo. E può anche, per somma di fattori negativi, ma principalmente per malagrazia collegiale, ridursi a zero.

Impavido, sotto l’occhio attonito del cameriere, in quei casi rastrello con calma il resto, monetine comprese, e l’intasco. Tutto ciò, naturalmente, siamo pur sempre gente di mondo, con un bel sorriso (di soddisfazione).

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