Legge elettorale: la maggioranza rischia già la crisi

Francesco Damato

Per quanto abbia cercato di liquidarlo come un chiacchiericcio estivo, esibendosi in quello che Ciriaco De Mita ha giustamente definito un esercizio di «beatitudine ostentata» e «andreottismo postumo», Romano Prodi ha adeguato la sua agenda politica al dibattito in corso sulla successione a Palazzo Chigi. Dove è infantile pensare che si possa resistere più di tanto con uno o due voti di scarto al Senato, neppure adottando la formula che De Mita ancora non perdona a Giulio Andreotti di avere una volta opposto a lui e ad altri che lamentavano nella Dc la debolezza del governo che egli guidava in quel momento: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia».
È accaduto, in particolare, che il presidente del Consiglio, pur assorbito da importanti urgenze internazionali, come la partecipazione dell’Italia alla forza multinazionale di interposizione in Libano, sulla quale stava proprio in quei giorni decidendo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha annunciato la settimana scorsa l’inserimento della riforma elettorale tra le priorità dell’azione di governo.
Così egli ha creduto di cautelarsi e di mettere, diciamo così, il cappello su un governo di transizione prospettato da esponenti dell’opposizione e della maggioranza in caso di crisi: un governo che, anziché gestire il ricorso immediato alle elezioni anticipate da lui costantemente minacciato ad ogni scricchiolio della sua traballante coalizione, prepari il terreno alle urne modificando la legge elettorale in vigore. Alla quale si attribuisce, a torto o a ragione, lo sbilenco risultato del voto del 9 e 10 aprile di quest’anno.
Ma se da una parte ha cercato di mettersi al riparo da chi gli contesta che senza una nuova riforma elettorale, dopo quella approvata l’anno scorso dal centrodestra, si possa aprire o chiudere una crisi per andare subito alle elezioni, dall’altra Prodi ha aumentato ulteriormente la confusione, e le tensioni, nella sua malferma maggioranza. Anziché scansare la trappola di chi pensa come sostituirlo, egli ha insomma finito per infilarvisi. La cosiddetta sinistra antagonista, grazie alla quale la coalizione prodiana ha evitato in aprile per il rotto della cuffia la sconfitta elettorale conseguendo un pareggio scambiato per vittoria, ha gridato al tradimento al solo sentir parlare - come ha fatto Prodi - di sistema maggioritario o di una correzione del sistema proporzionale con uno sbarramento alla tedesca, che precluderebbe l’accesso parlamentare ai partiti al di sotto del 5 per cento dei voti.
La riforma elettorale si è pertanto aggiunta al contenzioso che la sinistra massimalista, tanto ingombrante quanto determinante per la sopravvivenza del governo, ha aperto con Prodi sui temi della politica estera e della legge finanziaria. Ma a capeggiare la rivolta della sinistra antagonista, con un paradosso che esprime da solo il carattere contraddittorio della coalizione di governo, si è messo il partito che le è politicamente più lontano all’interno della maggioranza: la piccola ma anch’essa determinante Udeur del ministro della Giustizia Clemente Mastella. Il quale ha smesso subito di occuparsi di detenuti, magistrati, avvocati e quant’altro per denunciare il pericolo di «un accordo fra pesci grandi per mangiarsi i pesci piccoli». Ed ha avvertito il presidente del Consiglio che «le alleanze sono importanti ma l’esistenza in vita viene prima».

Se non è una minaccia di crisi, inevitabilmente liquidatrice della leadership prodiana per il modo in cui salterebbe la coalizione, è qualcosa che le assomiglia.

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