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La lezione del '73 e quelle sconfitte che sanno di pace

Anni fa, Boutros Ghali, ex ministro degli Esteri egiziano raccontò ad un gruppo di universitari israeliani come Sadat, poco dopo il cessate il fuoco nella guerra del Kippur (1973) radunasse i suoi più stretti collaboratori per tenere loro uno «stupefacente» discorso. Se Israele, attaccato di sorpresa su due fronti, era riuscito a minacciare coi suoi carri il Cairo e Damasco, o si continuava con la guerra sicuri della sconfitta o si doveva cercare un accordo. Sadat pagò con la vita la sua scelta della strada della pace - che dura da un quarto di secolo - e la restituzione di tutti i territori perduti. Siriani e palestinesi pagano con l’anarchia e il sottosviluppo la scelta della guerra. Quanto a Israele, a tutt’oggi c’è chi continua a credere che la sua più grande vittoria militare sia stata una sconfitta nonostante la pace con due dei suoi vicini e uno straordinario sviluppo economico e demografico.

Qualcosa di simile sta succedendo con la guerra nel Libano. Per l’opinione pubblica israeliana il conflitto appare un disastro che minaccia la sopravvivenza del governo Olmert. È il prezzo che la dirigenza paga per aver suscitato aspettative irrealizzabili e condotto una guerra con inesperienza militare. Ma vittoria e sconfitta non sono determinate dal numero dei nemici uccisi o dai territori conquistati ma da cosa si costruisce sulle rovine delle guerre. Il miracolo europeo lo dimostra come, in senso opposto, le vittorie napoleoniche, hitleriane e probabilmente oggi, degli hezbollah e dei terroristi. Non è infatti escluso che Libano e Siria non finiscano di fare le stesse riflessioni di Sadat sulla potenza israeliana. La creazione della forza internazionale in Libano è ben differente da quella che gli hezbollah e la Siria avevano vergognosamente cacciato da Beirut nel 1982. Non può fallire nel compito di restituire al Libano la sovranità che palestinesi, prima, hezbollah, poi, avevano cercato di sottrargli col pretesto della difesa contro l’espansionismo israeliano. È comprensibile che questo faccia imbestialire il numero due di Al Qaida che giustamente vede in queste truppe uno schieramento di «neo crociati» (inclusivo di cinesi e indonesiani) a guardia di una frontiera che il «nemico sionista» non deve più difendere da solo.

Quanto ai «contorcimenti» ideologici di Hamas, non scioglieranno certo il nodo palestinese. Ma dimostrano, cinque anni dall’attacco alle Torri di New York, che se il terrorismo non è stato sconfitto qualcosa sta cambiando nella regione. Nonostante gli errori americani, in Irak la partita ingaggiata dalla democrazia in quel Paese non è decisa; nel resto della regione il futuro rimane incerto, ma il passato si sgretola quotidianamente. Questo passato è quello del potere detenuto dai regimi autoritari instaurati e sostenuti dall’Occidente a cavallo della II Guerra mondiale sotto la spinta del petrolio e del nazionalismo arabo. Non verranno sostituiti da una democrazia di tipo occidentale ma da movimenti con approccio nuovo alla modernità e alla globalizzazione.

Movimenti che dovranno tener conto delle nuove regole del gioco politico che il nucleare impone. Prima fra tutte la trasformazione della logica fondata sul tradizionale equilibrio di potenza a quella nuova fondata sugli equilibri di impotenza, con tutti i pericoli e i benefici che la coesistenza comporta.

In Europa questa trasformazione ha portato al crollo dell’impero ideologico espansionista sovietico; nel Medio Oriente potrebbe avere effetti simili per quegli Stati che fanno del terrorismo e del nucleare gli strumenti delle loro ambizioni.

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