Il martire di un’Italia che fu

Com’è cambiato il Paese a 30 anni dalla strage di via Fani e dal sequestro dello statista

Sono passati solo trent’anni dal giorno in cui Aldo Moro fu sequestrato - nella prospettiva storica, un breve periodo - ma la cesura tra l’allora e l’oggi è assai più forte di quanto dica la cronologia. Di trent’anni in trent’anni, questo Paese subisce uno scossone positivo o negativo. Il 18 aprile 1948 un voto trionfale aveva affidato alla Dc la guida dell’Italia e relegato la sinistra, capeggiata dal Pci, all’opposizione (vi sarebbe rimasta per circa mezzo secolo). Nel 1978 un leader di quella Dc egemone era nelle mani dei terroristi. Siamo in attesa di vedere se anche il 2008 ci riserverà emozioni.
Tutt’altra dunque era l’Italia che apprese sbigottita dell’azione sanguinaria con cui un commando delle Brigate Rosse, dopo aver sterminato i cinque uomini della scorta, si era impadronito del presidente democristiano: il grande tessitore degli accordi di Palazzo, l’oratore fluviale e bizantino nei cui discorsi poteva essere trovato tutto e il contrario di tutto, il temporeggiatore che privilegiava il «ni» sul «no» e sul «sì». Per sottolineare, dal punto di vista cronistico, la diversità tra i due momenti basta un banale rilievo: il terrorismo interno aveva nella gerarchia delle ansie nazionali e delle preoccupazioni collettive, già prima della tragedia di via Fani, un’assoluta priorità, e ancor più l’ebbe dopo.
Una priorità che adesso spetta al caro prezzi, alle impennate del petrolio, alla corruzione, alle disfunzioni della pubblica amministrazione. La sicurezza rientra anche attualmente fra i motivi d’inquietudine e fra le esigenze della società: ma si tratta d’una sicurezza che protegga dalla diffusa microcriminalità. Il terrorismo è visto soprattutto come minaccia esterna e remota seppure presente, i suoi simboli non sono la P38 e la stella rossa, ma Bin Laden e Al Qaida. I ritorni di fiamma del brigatismo - Massimo D’Antona, Marco Biagi - sono parsi, e in effetti erano, uno strascico truce più che una continuazione. Mancava, attorno a quei crimini, l’alone di comprensioni, se non di simpatie, che aveva accompagnato, in ambienti universitari e di fabbrica, le imprese delle Br.
Quando Moro fu preso prigioniero a prezzo di cinque vite, a Milano ci fu chi brindò. Lo ha raccontato Mario Ferranti detto Coniglio, esponente in vista di Prima Linea. «Quella mattina c’era un corteo di lavoratori dell’Unidal che erano stati messi in cassa integrazione. Durante il corteo esce questa edizione speciale de La Notte con il titolo: “Moro sequestrato. La scorta uccisa. Sono state le Brigate rosse”. Il corteo ha un momento di stupore e successivamente di euforia mista a inquietudine. C’era la sensazione, durata alcune ore, non più, che finalmente stava succedendo qualcosa di talmente grosso che le cose non sarebbero state più le stesse. Molto eccitati erano gli studenti che partecipavano al corteo. Andiamo alla mensa della scuola e si decide, strada facendo, di impiegare i soldi della cassa del circolo giovanile per acquistare dello spumante, brindare a questo fatto, e coinvolgere nel brindisi i lavoratori della mensa, gli inservienti, cosa che avviene».
Un delirio, alimentato e - per chi ne era preda - giustificato dalle «stragi di Stato», dalla «strategia della tensione», dalla «polizia assassina» (il sindaco di Milano Aldo Aniasi sfilava alla testa di cortei che chiedevano il disarmo delle forze dell’ordine). Al delirio il Partito comunista non si associò ma a lungo non osò dissociarsene apertamente. Lo fece - e fu, come voleva il suo stile, duro - quando la sorte di Moro gli propose un dilemma non superabile.
Sotto il profilo politico la diversità profonda tra l’ieri di via Fani e l’oggi di via Prodi emerge da una constatazione, anch’essa banale ma inoppugnabile: il «caso Moro» ebbe a protagonista non solo un uomo, infine trucidato dalla ferocia brigatista, ma un partito che aveva dominato la vita pubblica italiana e che ancora l’avrebbe, per una quindicina d’anni, dominata. Coprotagonista di quella stagione fu l’altro grande partito, il comunista, la cui presenza e la cui potenza erano stati in definitiva la ragion d’essere della diga democristiana.
Acqua passata. Dello scudo crociato, alla vigilia delle «politiche» 2008, restano frammenti, partiti bonsai fregiati a torto d’un blasone illustre. Restano nostalgie di individui e di gruppi. Lo stesso dicasi per quel Pci che fu una non gioiosa ma efficiente e incalzante macchina da guerra politica, e che ha dovuto assumere altre generalità per non essere coinvolto in una catastrofe epocale. Anche il comunismo ha i suoi residui bellici, ma nessuno crede che vogliano sul serio la rivoluzione e il tipo di società cui con verbosa iattanza dicono d’ispirarsi.
L’epoca delle ideologie nobili e collaudate - la liberale, la cattolica, la socialista, la comunista - è finita lasciando il passo agli schieramenti non solo omnicomprensivi - lo era già la Dc della quale Mario Missiroli diceva che rendeva gli altri partiti inutili, perché là dentro c’era tutto - ma deideologizzati: e sommariamente identificabili per essere l’uno di centrodestra e l’altro di centrosinistra.
Le Brigate rosse concepivano la politica come una forma di criminalità, o la criminalità come una forma di politica. Aldo Moro fu sequestrato e poi assassinato in accordo con una «risoluzione strategica» delle Br (novembre 1977) che prevedeva attacchi ai massimi notabili democristiani. «È l’insieme della Dc che bisogna distruggere». Si volle far credere, e la tesi è largamente propalata tuttora, che Moro fosse stato scelto come bersaglio perché la sua tattica d’avvicinamento ai comunisti - lo rapirono mentre si avviava a Montecitorio per il varo del quarto governo Andreotti, con il Pci nella maggioranza - riusciva intollerabile ai fanatici di sinistra (che da sempre odiano i riformisti). L’avvicinamento c’era. Moro dichiarò nel suo ultimo discorso pubblico: «Noi siamo in condizione di paralizzare in qualche modo il Partito comunista e il Partito comunista è a sua volta in grado di paralizzare in qualche misura la Democrazia cristiana... Bisogna trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili nelle quali la storia in questi anni ci ha portati». Parole che da vari pulpiti sentiamo pronunciare anche in questa vigilia elettorale. Ma il mirino delle Br fu puntato su Moro perché Andreotti, cui i terroristi pensarono in un primo tempo, sembrava meglio protetto.
Con il loro agguato da manuale i brigatisti freddarono sùbito i cinque addetti alla scorta di Moro, due sulla sua stessa vettura (non blindata), tre in una Alfetta che seguiva. Nelle successive polemiche tra chi era per la fermezza e chi era per una trattativa che concedesse qualcosa ai brigatisti in cambio della salvezza di Moro, i cinque morti sono in pratica scomparsi, desaparecidos. Pareva che nel dibattito su fermezza e negoziato l’unico problema - e l’unico crimine ai brigatisti addebitabile - fosse il sequestro. La mia opinione - era anche l’opinione di Montanelli - è che un negoziato fosse ipotizzabile a patto che gli assalitori di via Fani non avessero sparso sangue. Ma in presenza di cinque cadaveri di servitori dello Stato, poteva lo Stato trattare? È vero che nel 1981 fu preso dai terroristi - anche lì dopo l’abbattimento dei due uomini di scorta - il notabile democristiano meridionale Ciro Cirillo, e che per lui si trattò, salvandolo. Va osservato che l’importanza simbolica del Cirillo non era paragonabile a quella di Moro, e comunque - secondo me - si sbagliò con Cirillo, non con Moro.
La vicenda terribile del presidente democristiano fu costellata di gravissimi errori politici e polizieschi. Ma l’affastellarsi di teorie complottistiche in forza delle quali pare che la morte dei cinque di via Fani e di Moro debba ricadere sulla Dc o sulla Cia, o sui «servizi deviati», o sul Mossad israeliano, o sulla P2, finiscono per occultare l’unica essenziale verità. Aldo Moro e la sua scorta sono stati uccisi dalle Brigate rosse, giustizia ha raggiunto e condannato i colpevoli, larghi di confessioni e di spiegazioni. Il resto è orpello romanzesco o fazioso. A trent’anni di distanza i contorni d’un avvenimento sfumano e la manipolazione politica riesce ad adulterarli.

Così c’è chi sostiene, oggi, che nella battaglia del 18 aprile 1948 il Fronte popolare socialcomunista inneggiante a Stalin rappresentava la libertà e il progresso, mentre la Dc amica degli Usa, con i suoi alleati, rappresentava la bieca reazione. Balle. Era meglio stare con gli americani nel 1948, e nel 1978 Moro morì per la ferocia delle Brigate rosse, non per arcane congiure. Punto e basta.

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