Dentro la mente di due kamikaze

Pedro Armocida

da Roma

Ci hanno provato in tanti a cercare di capire cosa passi per la testa di un kamikaze. Le risposte non sono mai state semplici né univoche. Proprio come capita a Paradise Now del regista palestinese Hany Abu-Assad che nel raccontare le ultime 24 ore di due giovani amici a Nablus, Said e Khaled, di lì a poco kamikaze, non riesce però a fornire le profonde motivazioni che li animano. Quasi a voler dimostrare che la normalità della violenza di quella regione è essa stessa il volano delle terribili azioni.
Certo il regista, ieri a Roma per presentare il film, in uscita sabato prossimo e non più venerdì per lo sciopero dello spettacolo, dice chiaramente come la pensa: «C’è uno Stato, Israele, che controlla i confini di un territorio sul quale convivono due differenti nazioni. A esso, secondo la legge internazionale, spetta il compito di vegliare su entrambe le cittadinanze anche se i palestinesi sono trattati diversamente, come nemici. Il nostro popolo vive sotto l’occupazione da 60 anni, ma gli israeliani non si assumono la responsabilità di aiutarci a crescere. Il mio film però non prende una posizione in merito e non vuole essere politico. Quello che m’interessava era raccontare un conflitto interiore da diversi punti di vista, per instaurare un dialogo con il pubblico».
Ciò non toglie che Paradise Now, prodotto con capitali europei e candidato all’Oscar per la Palestina («È la dimostrazione che non essendo riconosciuti come nazione possiamo essere rappresentati come entità culturale»), riesca a essere abbastanza oggettivo se non addirittura politicamente corretto. Descrive la realtà di una Palestina stretta nei confini presidiati dagli israeliani: ci sono il muro di filo spinato, i blocchi nelle strade da parte dei soldati e forse, anche per questo, ci sono i kamikaze. Che però qui non sono dipinti come fondamentalisti invasati quanto piuttosto come due bravi ragazzi che si preparano a fare la cosa per loro più normale al mondo, suicidarsi uccidendo.
Eccoli quindi perfettamente rasati, completo da cerimonia per far finta di andare a un matrimonio a Tel Aviv, trascorrere le ultime ore con le famiglie. Poi la preparazione militare, l’ultima cena, la videoregistrazione dei saluti ai parenti e delle motivazioni del loro gesto. Il giorno poi porterà con sé degli imprevisti e i due amici dovranno decidere con la propria testa se portare a termine l’operazione o no.


Lo spettatore non lo saprà mai e in cuor suo tifa per la palestinese pacifista convinta che questo modo di combattere non porti da nessuna parte. Parole condivise dal regista, contrario «alle violenze per colpa delle quali ci mettiamo allo stesso livello degli israeliani».

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