La smentita è cauta e diplomatica: il colloquio c’è stato, ma il suo senso venne «frainteso» dall’ambasciatore Usa.
Massimo D’Alema finisce nel mirino di Wikileaks con un giudizio durissimo sulla magistratura italiana, se non uguale almeno assai simile a quelli contemporaneamente attribuiti a Silvio Berlusconi (che non ha smentito per nulla, anzi nella conferenza stampa di fine anno ci ha messo il carico da undici). Secondo quanto riferito a Washington nel luglio del 2008 dall’allora ambasciatore in Italia Ronald Spogli, l’ex premier nell’estate del 2007 gli avrebbe detto che «la magistratura è la più grande minaccia allo Stato italiano». Il contenuto del cablo è stato reso pubblico il 23 dicembre a tarda sera, e la smentita di D’Alema è arrivata la mattina dopo: «Accanto ad osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni - scrive il presidente del Copasir - viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di un fraintendimento».
Conferma uno stretto collaboratore di D’Alema come Matteo Orfini, membro della segreteria Pd: «Escludo fermamente che sia quella la sua opinione, non ha mai detto cose del genere». Anche se un dirigente Pd filo-dalemiano, sotto garanzia di anonimato, commenta: «La magistratura un pericolo? Parole sante, quelle di Massimo...».
Che D’Alema, strenuo difensore dell’autonomia della politica, non abbia mai apprezzato (a differenza di gran parte della sinistra) il tintinnar di manette e l’eccesso di interventismo pubblico dei pm è noto. Anche se, per non alienarsi l’elettorato giustizialista, ha evitato di manifestare il suo pensiero a voce troppo alta, specie se nel mirino giudiziario finivano gli avversari. Ma basta guardare alle date, e ricordare il contesto in cui si collocava il colloquio «frainteso» con l’ambasciatore, per dare a quelle parole (seppur smentite) il suono - se non della verità - quanto meno della verosimiglianza. L’estate del 2007 era quella delle scalate, dei «furbetti del quartierino» e del caso Unipol: la gip milanese Clementina Forleo aveva depositato i testi delle intercettazioni di Giovanni Consorte, e le sue telefonate con i massimi dirigenti dei Ds erano finite su tutti i giornali. Dal mitico «abbiamo una banca» di Piero Fassino al «Vai! Facci sognare» di D’Alema (che poi avverte Consorte che è meglio vedersi di persona: «Attento alle comunicazioni...»).
In quei giorni roventi, mentre la Forleo chiedeva di poter utilizzare le telefonate nel processo (l’autorizzazione per D’Alema verrà poi negata dall’Europarlamento), i rapporti tra stato maggiore della Quercia e magistratura erano tutt’altro che idilliaci. E D’Alema esprimeva, anche pubblicamente, giudizi ancor più duri di quelli riportati dall’ambasciatore: «La magistratura si è comportata in modo inaccettabile», diceva accusando la Forleo di «abnormi invasioni di campo». Forse, aggiungeva, «li abbiamo difesi troppo, questi magistrati. Ma ora dobbiamo reagire». La diffusione sistematica delle intercettazioni è «una violazione della legge perpetrata dagli stessi magistrati», per alimentare «un clima da caccia grossa. Allora dico: siamo ancora uno Stato di diritto? Io non vedo alcuna ragione di giustizia in tutto questo».
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