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«La missione non cambierà l’opinione pubblica capisce»

Roma«Da diverse settimane, ogni mattina, mi svegliavo con il timore di accendere il cellulare e ricevere un messaggino con una notizia come questa. Purtroppo, è successo davvero».
Ministro La Russa, dove si trovava ieri, quando ha appreso dell’attentato?
«Ero in aereo, quasi in decollo per Algeri, per una visita ufficiale da cui sono appena rientrato».
Ha dettagli precisi su quanto avvenuto?
«Al momento (sono le 19, ndr) le notizie sono ancora un po’ frammentarie. Dai primi rilievi pare si trattasse di un ordigno artigianale molto potente, più di quelli finora usati».
Si è verificato quel «peggior timore» che temeva.
«Già, la paura che, a fronte dell’aumento di protezione raggiunto negli ultimi tempi - non va dimenticato che il blindato “Lince” ha salvato finora parecchie vite umane - potesse prima o poi corrispondere una crescita a dismisura della potenza degli ordigni. Un’offesa tale da rendere inefficiente la difesa. Detto questo, abbiamo un dovere».
Quale?
«Non dobbiamo mai considerare definitivo il livello di sicurezza ottenuto, anche se si tratta del massimo disponibile. Non dobbiamo accontentarci e bisogna sempre tenere in considerazione l’evoluzione tecnologica. Come dire, non culliamoci sugli allori, lo affermo da due mesi, ma studiamo, come stiamo facendo ad esempio con Finmeccanica, i progetti giusti per anticipare la capacità di forza ostile presente nei contesti in cui operiamo».
Per capirci, la sicurezza al 100% non esiste.
«Non può esistere. Bisogna però fare il massimo per tutelare i ragazzi e le ragazze che danno pure la vita e di cui sono orgoglioso. Mi inchino dinanzi alla memoria del soldato morto e presto verificherò di persona le condizioni in cui operano i militari italiani, che ancora una volta hanno dimostrato la loro assoluta dedizione al dovere».
Anticiperà quindi la data della visita già programmata?
«Sì, non andrò in Afghanistan magari domani, ma neppure a settembre».
Cambierà la natura della nostra missione?
«Non cambierà nulla e non solo per il volere del governo. La stragrande maggioranza degli italiani, fatte debite e legittime eccezioni, è consapevole della necessità che si prosegua nello sforzo per la pace, volto a portare la democrazia in quel Paese martoriato. È la volontà anche di chi opera in quel teatro».
Sulla questione ha sentito pure il capo dello Stato.
«Sì, ho parlato con il presidente della Repubblica, con il quale c’è totale sintonia. Nonostante l’evento dolorosissimo, Giorgio Napolitano ha confermato che non si può mettere in discussione l’importanza della missione».
Cosa le ha detto invece Silvio Berlusconi?
«Mi ha ricordato che siamo pure impegnati in una missione che rappresenta uno dei collanti dello “stare insieme” tra i Paesi che fanno parte del G8».
Intanto, si riapre il dibattito politico: siamo in guerra o no?
«Noi non lo siamo. Semmai, siamo stati attaccati da persone in guerra con noi. Il nostro contingente non partecipa infatti ad azioni preventive e, per intenderci, non va a snidare nessuno. Poi, se attaccati, abbiamo il diritto-dovere di usare la forza, di proteggerci».
Chiare regole d’ingaggio.
«Certo. Sono adeguate e delimitano l’azione in maniera netta, forse anche troppo».
Cosa intende dire?
«Mi interrogo semmai se sia possibile fare qualcosa di più. Ad esempio, sull’utilizzo dei cacciabombardieri Tornado, che al momento vengono sfruttati solo con compiti di monitoraggio. Potremmo magari usarli alla stessa maniera degli elicotteri d’attacco. D’altronde, se il pericolo rimane costante, è pur vero che di recente c’è stata una frequenza maggiore di azioni ostili verso il contingente Isaf».
Una questione, pare di capire, che non riguarda solo l’Italia.
«È così. E finora siamo stati tra i meno colpiti. Ma non lo dico per consolazione, ci mancherebbe, ma perché il problema è di tutti e si deve capire insieme come intensificare l’impegno».
Nel frattempo, Barack Obama rilancia l’auspicio di una efficace «exit strategy».
«Non esiste una data certa di uscita e la previsione non è mai stata di presenza breve. Abbiamo il dovere di rimanere, finché il governo locale non avrà la potestà su tutto il territorio e non ci sarà la forza politica interna capace di far rispettare l’ordine e la legalità. Anche per combattere la corruzione e bloccare il male endemico del traffico di droga. Tra l’altro, lì si gioca pure una partita decisiva della Nato contro il terrorismo».
Qualcuno, in Italia, torna a chiedere però il ritiro delle truppe.
«Rispetto chi, secondo me sbagliando, in maniera legittima chiede il ritiro. E devo essere sincero: perfino nella voce più distonica che ho ascoltato riscontro, rispetto al passato, un tono diverso, non di facciata. Una volta, ad esempio, avrebbero magari detto frasi del tipo: “È ciò che si meritavano” o “causa del loro male”. Adesso non è più così.

E, in generale, avverto davvero un segnale di cambiamento culturale».

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