Il «risorgimento» della Cina disegnato da Xi Jinping prevede a tutti i costi la riunificazione con Taiwan. Su questo argomento il leader comunista non sembra voler sentire ragioni. E non è un caso che proprio la scorsa settimana Pechino abbia aperto la strada alla mobilitazione di risorse civili per la guerra. Il comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo ha infatti votato a favore di un maggiore controllo rispetto al passato sulla pianificazione e mobilitazione militare. Le modifiche comportano che economia, tecnologia, trasporti, difesa aerea ed entità politiche possano essere rapidamente convertite per uso militare in una situazione di guerra. In poche parole Xi diventa il comandante in capo nel sempre meno ipotetico attacco a Taiwan. Nell'ottica di un intervento su larga scala, Pechino sta espandendo più rapidamente del previsto il suo arsenale nucleare, per dotarsi di almeno mille testate atomiche entro il 2030.
Lo rivela il Washington Post che ieri ha pubblicato alcuni stralci del rapporto annuale sulle capacità militari della Cina, preparato dal dipartimento della Difesa per il Congresso degli Stati Uniti. Il Pentagono avverte che Xi sta accelerando il ritmo di espansione del programma nucleare e potrebbe essere in grado di avere a disposizione oltre 700 testate nucleari entro il 2027. Si tratta di una previsione catastrofica rispetto all'analisi redatta un anno fa, quando l'allora Segretario alla Difesa Mark Esper giudicava la Cina in grado di raddoppiare il proprio arsenale atomico in dieci anni rispetto alle 200 testate di partenza. Pechino non dovrebbe comunque essere in grado entro la fine del decennio di competere con gli Stati Uniti, che oggi hanno a disposizione 3.750 testate nucleari. Le preoccupazioni di Washington restano tangibili e Mark Milley, ex capo di stato maggiore dell'esercito Usa, ha spiegato alla Cnn che i progressi militari cinesi «rappresentano uno dei più grandi cambiamenti nel potere geostrategico globale a cui il mondo sta assistendo».
Com'era prevedibile la Cina ha cercato di disinnescare le anticipazioni pubblicate dalla stampa americana. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha accusato in una nota ufficiale gli Stati Uniti di essere «la più grande fonte mondiale di minaccia nucleare. Il dossier su Pechino è confuso e manipolato. Per fortuna la comunità internazionale sa che stiamo agendo in maniera responsabile».
In realtà la comunità internazionale si sta mobilitando per scongiurare un conflitto, ma la strada del dialogo sembra piuttosto difficile da percorrere.
L'Europa ad esempio è divisa tra un gruppo di paesi amici di Pechino, e destinatari degli investimenti della nuova via della seta, un altro che critica la Cina e il suo regime e infine l'asse franco-tedesco, che sta esplorando una terza via, né allineata sulle posizioni di Washington né troppo compiacente nei confronti di Xi. Taiwan dal canto suo risponde ai tentativi cinesi di emarginare l'isola da qualsiasi rapporto internazionale con una rete di contatti e visite ufficiali. Il ministro degli Esteri Joseph Wu è stato nelle scorse settimane in Repubblica Ceca e Slovacchia, poi si è recato a Bruxelles mentre il collega dell'Economia, Shen Jong-chin, conversava a Vilnius con il suo omologo lituano. L'offensiva taiwanese per esistere (e resistere) sulla scena internazionale, malgrado la mancanza di riconoscimento, transita anche dalla visita della delegazione Ue a Taipei, nonostante gli avvertimenti della Cina che, all'annuncio dell'iniziativa, ha espresso irritazione minacciando ritorsioni.
Un gruppo di sette eurodeputati della commissione contro le ingerenze straniere (Inge), guidata dall'eurodeputato francese Raphael Glucksmann, si
trova in queste ore a Taipei e vi rimarrà fino a sabato. Nel corso del summit gli eurodeputati (tra loro anche il leghista Marco Dreosto) incontreranno la presidente Tsai Ing-wen, esponenti del governo e alti funzionari.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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