La «Moscheta» si sdoppia ma resta in «venexiano»

Torna a furor di popolo La Moscheta, il capolavoro di Angelo Beolco detto il Ruzante senza che stavolta ci sia bisogno di una particolare ricorrenza che abbia spinto i teatranti ad onorarlo. Riproponendo, per la nostra gioia, il meraviglioso parlato di quel dialetto così antico e così moderno coi suoi accenti tronchi e le sue parole spezzate, i suoi andanti di spesso sapore padano che si impastano mirabilmente nella lingua arcaica e paciosa del veneto d’antan. Mirabile linguaggio quant’altri mai che ha nutrito nel tempo sia la commistione plurilinguistica di Gadda che i milanesismi di Giovanni Testori. E torna alla grande con due allestimenti che faranno piacevolmente discutere gli specialisti. Dato che quello proposto dal Teatro di Genova nell’ispirata regia di Sciaccaluga ambienta l’amara favola pastorale sui generis nella periferia industriale di una grande città confinando negli squinternati carrozzoni degli zingari i protagonisti di questa sbilenca farsa triste dominata dal sesso. Con Betia femmina contesa tra un soldato che viene da fuori e due galli del suo stesso pollaio. Ruzante, il marito lunatico e svagato cui Tullio Solenghi imprime il malinconico sopore degli esclusi dal ludus amoroso e il mellifluo e viperino Menato di Maurizio Lastrico.


Mentre, a differenza del calco realistico dello spettacolo genovese, Giancarlo Marinelli, regista e coautore (sulla scorta di un adattamento di Roberto Alonge) della Moscheta proposta dall’Accademia Teatro in lingua veneta, propone uno studio sulla condizione umana ridotta allo stadio ferino dei bisogni primordiali facendo scontrare il dialetto con la lingua in un contesto volutamente spaiato. Dove, in un habitat ligneo di incastri che escludono il sole e riducono il paesaggio a contorno limitrofo degli scontri di potere, l’accento è posto su un immaginario dopoguerra di cui non si prevede la fine.

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