Una multinazionale del pensiero libero

Il giornalista e scrittore è scomparso ieri a Parigi a 98 anni. Collaboratore del Giornale, studiò le vicende politico-culturali della Mitteleuropa. Storico esperto dei paesi dell'Est profetizzò il crollo del comunismo

Una multinazionale del pensiero libero

Anni fa, quando rimanevo un po’ di giorni a Parigi - magari per «coprire» un avvenimento di particolare importanza - e stavo a lungo nell’ufficio del Giornale in rue Tronchet, non mi capitava mai d’annoiarmi: intanto perché Parigi è sempre Parigi, d’accordo, ma anche perché quel bugigattolo polveroso era frequentato assiduamente da François Fejtö. Che vi portava, insieme ai suoi eccellenti articoli, una conversazione d’inesauribile interesse per i ricordi storici e per i pettegolezzi d’attualità. Francesizzato, anzi francese come più non si può, Fejtö conservava tuttavia nel ragionamento, nel linguaggio, nell’accento qualcosa di diverso, l’impronta del suo essere, come è stato osservato, un «meticcio culturale», un ebreo errante.

Montanelli, che in queste cose aveva un fiuto infallibile, lo teneva in grande considerazione: e lui teneva in grande considerazione Montanelli, così disperatamente attaccato alla sua identità nazionale. Due vecchi assaliti da malinconie e da rimpianti, benché entrambi abbiano avuto il privilegio d’assistere alla fine del comunismo che avevano combattuto (e in cui Fejtö aveva brevemente creduto). Nel 1989 egli diagnosticò lucidamente che «non si tratta di crisi bensì di crollo del comunismo». Lo riabilitarono in Patria, dopo che era stato vituperato come traditore, ebbe onori e riconoscimenti, ma non vi tornò stabilmente. Il suo cuore era ormai altrove.

Più che ungherese - naturalizzato francese nel 1955 - Fejtö era multinazionale. Il padre era di Nagykanisza, una cittadina vicino al lago Balaton, la madre era di Zagabria, il nonno paterno boemo, una zia era sposata a un triestino e il bambino Fejtö trascorse alcune estati in una bella casa di campagna dei dintorni di Udine. Nelle nostre chiacchierate Fejtö - che amava molto l’Italia - rievocava con nostalgia la facilità che nell’impero asburgico esisteva di spostarsi da una nazione all’altra senza passaporti e senza visti.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, mentre l’Ungheria era una monarchia senza re governata da un ammiraglio senza flotta (Horthy) che alternava il paternalismo alla repressione, lo studente Fejtö entrò nei ranghi dell’estrema sinistra. Fu comunista, e presto comunista eretico. Subì per la sua attività di pubblicista e di propagandista «eversivo», un paio di processi - seppure con pene relativamente lievi -, il carcere, anche la tortura.

Un giorno, al termine del suo secondo processo - era il 1938, tamburi di guerra echeggiavano in Europa - Fejtö decise di espatriare. E scelse la Francia, una scelta definitiva. Ideologicamente si avvicinò ai socialisti, mentre l’Europa era occupata dai tedeschi solidarizzò con la resistenza francese. Intanto gli appartenenti alla sua famiglia paterna - tipografi, librai ed editori, patrioti ungheresi già distaccati dal giudaismo - furono tra le vittime dell’Olocausto. Aveva conservato fino ad allora la nazionalità ungherese, e pur avendo perso quasi tutte le sue illusioni e le sue speranze accettò d’essere addetto stampa dell’ambasciata d’Ungheria a Parigi.

Resistette in quell’ingrato incarico fino al processo del ’49 contro Laszlo Rajk, un comunista di saldissima fede sottoposto a una delle purghe spietate che imperversavano nell’universo staliniano. Rajk fu costretto, sappiamo con quali metodi, a confessare inesistenti complotti, e venne giustiziato. Fejtö denunciò la vergogna di quell’assassinio, e fu rimbeccato da Pierre Courtade, un giornalista dell’Humanité (il quotidiano comunista francese) che aveva seguito la farsa giudiziaria conclusa con la sentenza di morte, e che lo definì (lui Fejtö) «vecchio fascista, spia della polizia ungherese e collaborazionista». Dopo che Rajk nel ’56 fu riabilitato lo stesso Courtade, incontrando Fejtö, gli disse sfrontatamente: «Io ho avuto ragione d’aver torto, mentre tu e i tuoi simili avete avuto torto d’aver ragione». Irrecuperabile, il Courtade, nel suo settarismo sanguinario.

Così come apparivano irrecuperabili, nei ricordi di Fejtö professore - teneva dei seminari di storia delle democrazie popolari, tema al quale aveva dedicato libri fondamentali - gli studenti postsessantottini che spasimavano, variamente, per il comunismo ortodosso, per il maoismo, per il trotzkysmo: e che erano unanimi nel proclamare l’inferiorità delle democrazie occidentali nei confronti di ogni società e regime d’impronta rivoluzionaria ed egualitaria. Fejtö insisteva perché gli studenti trascorressero qualche mese in un Paese comunista, di fede moscovita o d’altra fede. Alcuni seguivano il consiglio, e tornavano delusi, amareggiati. Ma la maggioranza continuava a ritenere che il servo Courtade fosse più attendibile di Fejtö: alle cui idee s’è incaricata di dare piena attendibilità proprio la Storia con la S maiuscola.

La fatica, durata una lunga vita, di questo

ungherese-francese, di questo «giudaico-cristiano» - il cui libro Dieu et son juif ha avuto l’approvazione del Gran Rabbino di Parigi e la deprecazione del Gran Rabbino di Budapest - ha avuto la sua ricompensa. Una ricompensa meritata.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica