Napoleone in Russia fu sconfitto dal «Generale estate»

Caro amico Granzotto, nelle ultime settimane lei è tornato sull’aggressione nazista all’Unione sovietica ricordando che fu grazie ai massicci aiuti americani se i russi riuscirono dapprima a inchiodare i tedeschi a Stalingrado e conseguentemente a sconfiggerli. Ma si dimentica che cento e trent’anni prima dell’Operazione Barbarossa un altro europeo provò a piegare la Russia: Napoleone Bonaparte. E in quella circostanza non mi sembra che qualcuno corse in aiuto dello Zar?


La leggenda vuole che a dar manforte allo zar Alessandro I sia stato il «Generale inverno». Ma è una leggenda messa in giro dallo stesso Napoleone col famoso 29° Bollettino nel quale il «prematuro sopraggiungere dell’inverno» veniva indicato quale responsabile della disfatta. In verità fino alla Beresina (29 novembre) l’inverno russo era stato insolitamente mite. Quando si fece davvero sentire sembrò più rigido di quel che fosse perché nulla era stato predisposto per affrontarlo. I piani prevedevano infatti di trascorrerlo nei sontuosi edifici moscoviti, con le tavole imbandite davanti ai caminetti accesi. A fiaccare l’esercito fu semmai una estate torrida unita alla drammatica carenza dei servizi medici. Prima ancora che fosse sparato un solo colpo, 90.000 soldati erano morti di dissenteria, difterite e tifo. Il 23 giugno l’imperatore attraversò il Niemen, fiume che segnava la frontiera con la Russia, con il più grande esercito mai mobilitato: 675.000 uomini (contro i 218.000 di Alessandro I). I francesi erano meno della metà, il resto proveniva, in ottemperanza ai bandi di arruolamento obbligatorio, dai Paesi alleati o assoggettati. Gli italiani, che si batterono assai bene a Malojaroslavetz, ammontavano a 40mila. Tre mesi più tardi, il 14 settembre, Napoleone fece il suo ingresso in una Mosca data alle fiamme, inabitabile e senza risorse, con poco più di 100mila soldati, quanto gli rimaneva della Grande Armée.
Il fatto è che a giudizio degli storici anche se l’estate e l’inverno di quel 1812 fossero stati temperati, senza la ferrovia e il telegrafo l’impresa ideata da Napoleone era destinata al fallimento. Impossibile infatti coordinare con le staffette i movimenti di un esercito così numeroso da dover essere dislocato su un fronte vastissimo (le ali, per mancanza o contraddittorietà di ordini, non presero quasi mai parte ai combattimenti). E impossibile approvvigionarlo convenientemente. Ogni divisione si trascinava dietro mandrie di bestiame che rallentavano la marcia e ostruivano la già carente rete stradale impedendo ai convogli del munizionamento, dei medicinali e dei viveri di giungere con sollecitudine ove erano richiesti. E poi c’era il problema di nutrire 350mila cavalli da sella e da tiro ciascuno dei quali aveva bisogno di 10 chili di foraggio al giorno. Fatto sta, caro Minucci, che il vero alleato dello zar fu l’ambizione, la megalomania di Napoleone Bonaparte. Il quale, a quarantadue anni, aveva perso smalto e per la prima volta si mostrò, sul campo di battaglia, esitante. Non era più, insomma, il Napoleone di Marengo o di Wagram col lampo de’ manipoli e l’onda dei cavalli e il concitato imperio e il celere ubbidir, per dirla con don Lisander Manzoni. Peccato per i cumuli di cadaveri che si lasciò alle spalle nelle steppe della Russia, gente che sacrificò la propria vita alle sue imperiali ambizioni.

Faccenda che comunque non lo riguardava né creava, al grand’uomo, problemi di coscienza: «Un uomo come me - disse a uno sgomento Metternich - non si preoccupa delle vite di mezzo milione di persone» (e pensare che qui da noi, in Italia, se ne è fatto un campione delle libertà e dei diritti umani: manca solo che si dica che era un pacifista).

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