Nel «gran rifiuto» lo spirito libero di Ciampi

Erano le 11 del mattino del 3 maggio 2006. Nello studio di Carlo Azeglio Ciampi si riunirono i principali collaboratori del capo dello Stato: Gaetano Gifuni, Salvatore Sechi, Francesco Alfonso, Alberto Ruffo, il portavoce Paolo Peluffo. «Ci venne distribuito da Gifuni un testo di una pagina fitta - racconta Peluffo -, direi 25 righe. Era il testo del “rifiuto” di Ciampi dell’ipotesi del secondo mandato. Lo leggemmo prima in silenzio, poi a voce alta. Era chiaro che eravamo stati convocati a decisione presa, anzi strapresa». Non ci sarebbe stato un mandato-bis, come avevano sollecitato fino a qualche ora prima gli esponenti principali del mondo politico senza distinzione di partito.
Questo episodio è solo uno fra i tanti raccolti da un testimone privilegiato della carriera politica ciampiana: il suo portavoce, «il dottor Peluffo», come il presidente non smise mai di chiamarlo, anche dopo tanti anni di lavoro in comune. Nelle cinquecento pagine di Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo e il presidente, che la Rizzoli manda oggi nelle librerie, si snoda il racconto di una lunga stagione politica che Ciampi ha attraversato da «premier traghettatore» fra la prima e la seconda Repubblica, da ministro del Tesoro con il compito di portare l’Italia nell’Unione monetaria europea, infine da capo dello Stato.
È, tuttavia, proprio il «no» al secondo mandato l’episodio che spiega meglio di tutti gli altri lo spirito con cui l’ex governatore di Bankitalia ha affrontato la politica. Nello studio del presidente, quel 3 maggio dell’anno scorso, qualcuno invitò Ciampi a riconsiderare la decisione presa. Gifuni, e lo stesso Peluffo, provarono a obiettare che il «chiamarsi fuori» in un momento così confuso avrebbe potuto deludere i cittadini, che manifestavano un tasso di consenso mai visto (fra l’87 e il 92%, secondo i sondaggi Eurisko e Ipsos) nei confronti del presidente. Ciampi rispose ricordando che «lo spirito repubblicano impone la rotazione delle cariche, non ci si può illudere che ci sia una soluzione demiurgica ai problemi. È giusto che le istituzioni sappiano cambiare e che i cittadini si abituino a cercare altri punti di riferimento».
Tutti i partiti, con l’eccezione di Rifondazione e, parzialmente, della Lega, avevano chiesto a Ciampi di restare al Quirinale per un secondo mandato. Silvio Berlusconi aveva insistito molto in proposito, ma anche Prodi e Fassino avevano sollecitato il «bis». Fatto mai avvenuto - anche se spesso vagheggiato dai presidenti in carica - nella storia repubblicana. Il solo Ciampi ha avuto la concreta possibilità di rimanere per quattordici anni sul Colle; paradossalmente ma non troppo, conoscendo un pochino il personaggio, ha declinato. E non soltanto per la ragion politica. Nessuno, in quella riunione del 3 maggio, osò dire che la scelta del ritiro poteva sembrare, in fondo, un po’ egoistica. Ci pensò autonomamente Ciampi a dare una spiegazione, riflettendo sull’equilibrio fra la vita pubblica e la vita privata. «Il tornare al privato è un insegnamento per gli altri, quindi è anch’esso un atto di natura pubblica», aveva argomentato.
Il Ciampi-bis non c’è stato, ed è forse giusto così: ogni stagione politica deve avere i suoi protagonisti.

Oggi che si discute tanto di «rifiuto della politica», una nuova presidenza Ciampi legata alla tradizione risorgimentale, al Tricolore, all’Inno di Mameli, alla visita delle cento città italiane, avrebbe avuto senso? Militare di carriera mancato - non gli riuscì di passare il concorso all’Accademia navale di Livorno per una congiuntivite - Ciampi aveva ben capito che, dopo la battaglia, anche il generale più risoluto ha il diritto-dovere al ritorno a casa.

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