New York ora cucina italiano

Roberta Corradin

A New York tutto ha vita accelerata, soprattutto i ristoranti. Niente di più facile che quello che vi era piaciuto tanto l'ultima volta ora sia chiuso, o che lo chef ne abbia aperti nel frattempo altri due. Accade a David Chang, ex di Bouley che un anno fa ha lasciato l'alta ristorazione per aprire Momofuku, ristorantino easy nell'East Village dove si mangiano noodles (tagliolini orientali in brodo) e panini di maiale al vapore (buns) che in Giappone sono uno street food. Chang insiste sulla formula fast-food orientale con ingredienti bio coltivati o allevati in Vermont, e bissa con Momofuku Ssäm bar, dove serve dei fagottini coreani chiamati ssäm, ottimi per uno spuntino veloce per palati curiosi.
La mania dei noodles dilaga a Manhattan: al Greenwich Village, dove prima c'era un ristorante di Jean Georges Vongerichten (Yum cha), ora c'è Noodle Bar, che serve cucina di strada di Hong Kong; il proprietario di Green Tea Cafè ha aperto, all'East Village, Je'Bon Noodle House. Si rinnova anche Vong (franco-thailandese, sempre buono ma un po' vecchiotto) con un nuovo tapas lounge, Nightlife, dentro il Night Hotel sulla 45ª strada in mezzo ai teatri di Broadway. Le cucine asiatiche a New York vanno fortissimo, anche se con delusioni tremende. A noi piace scrivere solo di quanto ci piace, però facciamo due nomi: Masa e Morimoto. Masa non è nuovo ma il menu sushi più caro del mondo fa rimpiangere i 500 dollari del conto. Gli appassionati di design ammireranno da Morimoto l'opera di Tadao Ando, l'architetto del negozio Armani a Milano: strutture ondulate, un muro di bottiglie d'acqua che frange la luce. Purtroppo anche la cucina punta tutto sulla vista, e poco sul gusto.
Se c'è una categoria di ristorazione che trionfa a New York, sono gli italiani. Non quelli da fine dinner, ma se vi prende una nostalgia langarola, da Barbetta, il più antico ristorante di New York, inserito tra i locali storici d'Italia, che celebra quest'anno il primo centenario, trovate un ambiente da palazzo di corte sabauda e cucina ancora piemontesissima, per volere e tenacia di Laura Maioglio, che manda continuamente i suoi chef ad aggiornarsi in Piemonte. I nuovi italiani sono una piacevole sorpresa: moderni, regionali, piccoli, talvolta monopiatto, come succede per Piada, un fast-food romagnolo a Clinton Street, quasi di fronte a WD50 di Wylie Dufresne, uno dei pochi statunitensi che fanno cucina creativa con garbo europeo al di là dell'Atlantico - anche se Wylie ultimamente ha un po' perso di vista il concetto di main course (piatto principale) e il gioco di sapori non ha per contraltare una solidità calorica. Nella stessa strada, Clinton Street, Jacopo Falai, ex pastry chef di Le Cirque, ha aperto Falai, ristorante ispirato alle origini toscane dello chef, dove il pane ha un ruolo protagonista e sfila più volte durante la serata, appena sfornato su grandi vassoi: i camerieri offrono schiacciatine, fettine di pani speciali, e il successo dell'iniziativa è stato tale da convincere Jacopo ad aprire a pochi metri di distanza Falai panetteria, una insolita (per noi) panetteria sul modello bakery, con caffè Illy, brioches fresche e un menu leggero a pranzo e a cena (le focacce farcite e le polpette gli hanno fruttato la nomination nei best of New York sul New York Magazine). Per il momento, Falai panetteria adotta la formula Byow: bring your own wine, ovvero vi portate voi la bottiglia di vino che volete e loro ve la stappano e ve la servono. I dessert chiudono piacevolmente e ricordano che lo chef ha un passato di pasticciere.
Cammino opposto, dalla bakery (panetteria con caffè Danesi e brioches) per i soci di Panini che dalla sede dell'East Village ha bissato vicino a Union Square, prima con un chiosco di pizza romana al taglio, caffè, brioche e gelati, Tarallucci e Vino, che a sua volta si è clonato nell'omonimo locale accanto, aperto dal mattino per colazione sino a sera tarda per aperitivi e cicchetti; al tavolo si servono zuppe (votato best of New York, sempre dal New York Magazine, scrippelle 'mbusse abruzzesi, crepes farcite di formaggio arrotolate e servite imbevute in brodo di carne magrissimo), fritti molto bene eseguiti e un piccolo menu molto ben studiato.
Infine, chi ha detto che per cucinare italiano bisogna essere italiani? Jodie Williams, che ha imparato la cucina italiana dalle casalinghe di Reggio Emilia e di Roma, guida in modo eccellente Gusto a Greenwich Village; Scott Tennant, chef all'Impero, vi stupirà con i suoi spaghetti al pomodoro. E se poi vi resta spazio per il dolce, c'è Room 4 Dessert, appena aperto da Will Goldfarb, che si è formato in Italia al Cibreo, ed è fortemente ispirato da Davide Scabin. Il posto, per inciso, è vicino a La Esquina, uno dei locali «segreti» di New York: si apre la porta con su scritto Employees only, si scendono le scale ed ecco un ristorante messicano frequentato da scrittori, attori, creativi vari. A Room 4 Dessert, Will gioca con gli alginati (quelli del dentista) per fare le gelatine, propone cocktails da abbinare ai dessert e versioni dessert di cocktail, come whiskey coca, white chocolate margarita con limone Meyer, gelatina di limone, cioccolato bianco e sale rosa australiano. Da provare la sua Mela in vari stati e Viaggio in India.

Consigliata la postazione centrale al banco, per spiare lo chef e il suo aiuto al lavoro.

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