«Noi, palestinesi delusi da Abu Mazen»

Non sono di Hamas né di Fatah, eppure non credono che dalla Conferenza di pace di Annapolis possa uscire qualcosa di buono

«Vedo aprirsi buone prospettive per la pace». In preparazione della Conferenza di Annapolis, Abu Mazen, Olmert, la Rice trovano ogni giorno buone ragioni per comunicare, fra strette di mano e sorrisi, la loro fiducia in un possibile accordo. Ma la realtà non è affatto semplice. Abu Mazen in realtà non è affatto contento del prossimo appuntamento americano, sa che Annapolis può essere la sua rovina: avendo posto come condizione la restituzione da parte di Israele del 100% dei territori del ’67, parte di Gerusalemme e il ritorno dei profughi, se ottenesse anche il 90% di ciò che ha chiesto, verrebbe ritenuto dai suoi un perdente da eliminare, un servo degli americani e degli israeliani, e Hamas si rafforzerebbe. Come ci ha detto il negoziatore americano Martin Indyk, che a Annapolis ci tiene: «C’è un notevole miglioramento nell’atteggiamento israeliano. Purtroppo questo è difficile notarlo fra i palestinesi».
Vediamo: andiamo a Betlemme al campo profughi di Deheishe. Non c’è dubbio, tutti conoscono il nome Annapolis, ma è solo causa di scetticismo e di delegittimazione di chi ci va. Shadi Alassi, 25 anni, che incontriamo nel campo profughi di Deheishe nella sede dell’Ibdaa, dove si insegna ai figli dei figli dei figli dei profughi il loro diritto alla terra, si indica la giovane faccia abbronzata: «Scusi, guardi il colore della mia pelle. Due Stati per due popoli? Annapolis? Stato d’Israele accanto a quello palestinese? Li ha visti gli ebrei russi color della luna? Non c’entrano nulla con questa terra, la nostra terra». Semplice e chiaro: «Tutti la pensiamo così. Gli ebrei non hanno nessun diritto a uno Stato ebraico. Due Stati? Qui ce ne deve essere uno solo». Inutile chiedere quale. Ma il colore... avrà visto il colore di qualche ebreo marocchino, iracheno, libico, magari etiope... Niente, Shadi, che sembra un giovane intelligente, non è né di Fatah né di Hamas, non abita nemmeno dentro Deheishe, sta a Beit Zahur, ha studiato per alcuni anni a Parigi, ha una percezione di sé, nonostante il sorriso pronto e aperto da ragazzo che ha viaggiato, come di un creditore della vita cui il debito deve essere pagato fino all’ultimo soldo. «Abu Mazen non ha nessun diritto di rappresentarmi, chi gliel’ha detto, chi l’ha incaricato? Abu Mazen non rappresenta il popolo palestinese», afferma con precisa intenzione. «Noi profughi con i figli e i nipoti oggi siamo più di cinque milioni, chi può dire chi può e chi non può tornare, vivere dove voglio a casa mia... certo non Abu Mazen. Due Stati?! Se Ajur, il mio paese di origine (no, non ci sono mai stato) resta dall’altra parte, chi mi riporterà?».
Inutile rivangare la storia: circa 700mila profughi palestinesi che, per decisione dell’Onu spinta dal mondo arabo, sono stati accuditi dall’Unrrwa, unica organizzazione creata ad hoc per un gruppo specifico di profughi, un trattamento a parte che nessuno, non gli indiani, non i pakistani, non i sudanesi, i musulmani della Bulgaria... ha ricevuto mai. Mentre gli 800mila profughi ebrei che dal mondo arabo si riversavano anche in Israele si integravano, i Paesi arabi non hanno mai permesso ai palestinesi di integrarsi. Oggi ce ne sono in Giordania 2 milioni, in Libano uno, in Siria 600mila, nell’Autorità un po’ meno di mezzo milione... Nessuno di loro, specie quelli che hanno vissuto una vita grama e nello stesso tempo sussidiata, ha intenzione di ammettere che quattro generazioni hanno buttato la propria esistenza per consentire ad Abu Mazen di fare la pace.
«Io non voglio il diritto al ritorno», spiega bene un mobiliere con cui parliamo a Deheishe: bel negozio, cucine e tv a prezzi ragionevoli e avventori che si aggirano. «Ad Annapolis sarà secondo la volontà di Allah. Ma la sua volontà è chiara: il popolo palestinese combatterà la jihad fino all’ultima goccia di sangue... come possono entrare in questo piccolo spazio due Stati? La terra è poca, e poi non si può avere il nemico così attaccato addosso». Mi precisa che lui è musulmano, no, non di Hamas; crede in Dio, non in Abu Mazen... Sì, il Presidente chiede agli israeliani di accettare il diritto al ritorno, non è ben chiaro dove debba essere questo ritorno. Perché ci sono tanti che devono tornare a Tel Aviv, a Haifa, a Safed e tutto intorno.

All’entrata di Deheishe una mappa dipinta sul muro, vicina a vari murales in cui i soldati israeliani vengono raffigurati mentre compiono atrocità contro mamme e bambini, elenca tutti i posti da cui vengono i profughi, e coprono la mappa della regione.
Non importa se sono la terza generazione, come Shadi. E se Abu Mazen farà un accordo che porterà a chiedere a tutti i profughi di tornare a casa, nella nuova patria palestinese? Shadi ride: «Non gli conviene».

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