Una diciottenne esce di scuola con lo zainetto in spalla e va a trovare un amico gravemente malato. Tornando a casa, sconvolta dopo averlo visto in coma su un letto di ospedale, si lascia andare a commenti del tipo: «Se succedesse a me, non vorrei continuare certo a vivere così».
Chi di noi non ha pronunciato, in qualche occasione, frasi come questa? E cosa poteva dire di diverso una ragazza con tutta la vita davanti, alle sue prime esperienze di confronto con il dolore e la morte? Eluana Englaro non immaginava certo che su alcune parole dette agli amici e ai genitori per liberarsi da un'emozione troppo forte, si sarebbe costruito un dibattito etico e giuridico nazionale. Ieri la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza con cui stabilisce che è possibile togliere l'acqua e il cibo a un malato in stato vegetativo, a due condizioni: che i medici ritengano impossibile un recupero, e che, sulla base del «vissuto del paziente» e dei suoi «convincimenti etici, religiosi e filosofici» si possa desumere che questi avrebbe voluto sospendere il trattamento.
Quanto siano granitici i nostri convincimenti culturali e religiosi (anche filosofici, non dimentichiamolo), lo sperimentiamo nelle incertezze quotidiane, nel patteggiamento con la realtà che ogni giorno mettiamo in pratica, nell'evoluzione costante che ognuno, per adattarsi alle diverse fasi della vita, è costretto a compiere. È difficile che, esaminando con onestà il vissuto di una persona, si possano dedurre posizioni etiche irriducibili e non invece atteggiamenti contraddittori e mutevoli. Pensiamo per esempio a Sylvie Menard, capo del dipartimento di oncologia all'Istituto nazionale dei tumori di Milano, che ha cambiato radicalmente idea su testamento biologico ed eutanasia dopo essersi ammalata: «Da medico, da oncologa, ero favorevole: oggi rivendico il mio diritto a vivere». E aggiunge: «Il testamento biologico non si può fare da sani, perché in questo caso la morte è qualcosa di astratto; quando ti ammali la prospettiva cambia e oggi io troverei uno scopo anche costretta a letto». Ma non sono solo le nostre opinioni ad essere oscillanti e incerte, lo sono anche quelle dei medici. La medicina non è una scienza esatta, ma un insieme di conoscenze che si scontra continuamente con l'imponderabile e l'imprevisto, con le reazioni soggettive e l'unicità di ogni individuo. Stabilire, come chiedono i giudici, «standard scientifici universalmente riconosciuti» che certifichino l'impossibilità di tornare indietro da uno stato vegetativo, vuol dire negare le molte controversie che esistono su questo punto tra gli esperti, ma soprattutto espone i malati al rischio di essere considerati dei non-viventi. Sarebbe una sorta di certificato di «pre-morte», con cui il paziente, dopo aver perso la consapevolezza, perderebbe anche la dignità umana, la considerazione che si ha per un essere il cui cuore ancora batte, e della cui misteriosa condizione di incoscienza sappiamo molto poco. Non è un rischio remoto: il Journal of Medical Ethics, circa un anno fa, ha pubblicato un articolo in cui si proponeva di usare i malati in stato vegetativo persistente come cavie umane per la sperimentazione sugli xenotrapianti. Perché no? Se si può staccare la spina, se si può smettere di nutrirli, perché non utilizzarne i corpi per esperimenti utili all'umanità?
Con questa ambigua sentenza Eluana rischia di diventare la Terri Schiavo italiana. Terri è stata inchiodata a parole pronunciate, secondo il marito, davanti a una fiction televisiva: quelle parole coscienti, dette probabilmente senza troppo pensarci, hanno pesato più della sua vita incosciente, più delle disperate richieste dei genitori.
Eugenia Roccella
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