«Non trasformiamo i musei in Disneyland culturali»

Il direttore dell’Hermitage, Mikhail Piotrovsky, spiega con quale spirito si gestisce uno dei centri d’arte più grandi del mondo

nostro inviato a San Pietroburgo
Lavora su una scrivania in mogano appartenuta allo zar Alessandro III, alle sue spalle è appeso un ritratto di Caterina la Grande e quando alza lo sguardo in cerca di ispirazione ammira gli splendidi palazzi che si affacciano sul fiume Neva. Privilegi del direttore dell’Hermitage. È un uomo rispettato e molto invidiato Mikhail Piotrovsky. Quando prese la direzione, nel 1992, succedendo al padre, San Pietroburgo era alla fame e il Museo sull’orlo della bancarotta. Grazie a lui l’Hermitage non solo è sopravvissuto ma si è sviluppato fino a diventare una delle realtà culturali più ammirate al mondo. Eppure quando lo incontriamo, rimaniamo colpiti dalla sua naturalezza. Non c’è traccia di superbia nelle sue parole. Mikhail Piotrovsky è un saggio, con un’unica missione: restare fedele a quello che chiama lo «spirito dell’Hermitage».
La formula è affascinante, ma che cosa significa in concreto?
«Oggi i musei tendono a essere nazionali, locali e privati. Noi invece vogliamo mantenere la tradizione del Museo universale, capace di combinare diverse culture, e siamo orgogliosi delle nostre radici che risalgono ai tempi dell’impero zarista. L’Hermitage non possiede solo grandi collezioni d’arte e non lo si può identificare soltanto con i magnifici palazzi che lo ospitano. Qui respiri la storia russa, rivivi l’ambiente imperiale. Modernizzare troppo significa distruggere questa sublime alchimia».
Vuole dire che nulla è cambiato rispetto a un secolo fa?
«No, voglio dire che tutto è concepito per comunicare una certa atmosfera. Ad esempio la luce. Fino a qualche tempo fa nei musei si pensava che quella naturale potesse danneggiare le opere, soprattutto i dipinti, e dunque si preferiva quella artificiale. In realtà la luce del sole va benissimo, a condizione di usare semplici accorgimenti, ad esempio applicando i filtri protettivi ai vetri. Da noi le grandi finestre sono diventate la principale fonte d’illuminazione: noi vogliamo che sia la luce naturale a valorizzare le opere».
Insomma, contrariamente ad altri musei non usate gli architetti della luce...
«No, li utilizziamo, ma moderiamo il loro impeto. Nell’Ottocento la gente evidentemente aveva una vista migliore, non aveva bisogno di una luce intensa per ammirare un’opera. Il problema è che gli specialisti non differenziano il museo da una gioielleria o da un teatro drammatico. È sbagliato illuminare con i faretti un Rembrandt, perché sono i suoi dipinti a creare i giochi di luce e di ombre; bisogna rispettare lo spirito dell’artista. È il nostro stile. Per la stessa ragione non eccediamo nella pulizia durante i restauri; i dipinti non devono brillare come nei cataloghi. I nostri restauratori si limitano a ritoccare lievemente facendo attenzione a non distruggere le nuances dell’opera».
In Europa molti musei tendono a organizzare mostre-evento, tipo cento capolavori espressionisti, solo per compiacere il grande pubblico. Anche voi?
«Grazie al cielo no. Non bisogna trasformare i musei in delle Disneyland culturali e per fortuna le nostre finanze non ci hanno mai costretto a tanto. Anche noi organizziamo mostre temporanee, ma solo seguendo criteri rigorosi, tre in particolare. Innanzitutto mostre sulla storia zarista, ad esempio sull’epoca di Pietro il Grande o di Alessandro I, che sono molto importanti importanti per i russi. In secondo luogo, esposizioni di capolavori unici, pensate soprattutto per grandi esperti. Infine, mostre di arte moderna».
Arte moderna all’Hermitage?
«Sì. Le nostre collezioni finiscono con la prima guerra mondiale, ma noi vogliamo aiutare la gente a capire l’epoca e a sviluppare buon gusto. Se lo facciamo per la storia russa è giusto farlo per l’arte contemporanea. E non è facile, perché l’arte moderna è per metà falsa e per metà vera. Noi aiutiamo il pubblico a distinguere l’una dall’altra. E lo facciamo portando qui i migliori artisti».
Il suo è uno dei più grandi musei al mondo, chi lo finanzia?
«Quando fui nominato direttore il nostro budget era cento volte più piccolo di quello del Louvre o del Metropol. Ora la proporzione si è ridotta a dieci. Abbiamo sviluppato un sistema di finanziamento articolato, che comunque non ci rende indipendenti dallo Stato. Il nostro budget è di trenta milioni di dollari, ed è coperto per il 60% da aiuti pubblici. Il rimanente 40% è generato dalla vendita di biglietti e dai fondi ricevuti da donatori privati; tra cui molte aziende come Ibm, Coca-Cola, le russe Interros, Russian Alluminium. In Italia possiamo contare sull’appoggio di Banca Intesa e di Confindustria».
Nei vostri depositi avete un patrimonio inestimabile: quasi tre milioni di pezzi, eppure solo una piccola parte viene esposta. Non è un peccato?
«Certo, per questo è stato elaborato il progetto del “Grande Hermitage”. Qui a san Pietroburgo il museo sarà ampliato: entro cinque-sei anni potremo esporre anche nelle sale di un Palazzo adiacente, il General Staff. Abbiamo aperto centri permanenti esterni ad Amsterdam, Londra, Las Vegas e in Russia, a Kazan, dove ogni sei mesi vengono inaugurate nuove mostre. Il programma di esposizioni temporanee è intenso: ogni anno ne organizziamo dieci-quindici in tutto il mondo. Infine abbiamo deciso di aprire i nostri depositi alla periferia della città, per una superficie pari a 50mila metri quadrati.

Camminando in un tunnel di vetro il pubblico potrà ammirare i pezzi che difficilmente trovano spazio nelle sedi principali: ad esempio tutte le carrozze, restaurate e no, tutti i dipinti murali. Abbiamo una sola ambizione: rendere accessibile a tutti le nostre collezioni. L’Hermitage è un museo russo aperto al mondo».
marcello.foa@ilgiornale.it

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