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Milano, camion travolge e uccide mamma, autista scappa
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OGGI L’AUTOPSIA

MilanoSull’abisso ci si è affacciato un passo alla volta. Man mano che crollava il suo impero, Mario Cal sprofondava in un’angoscia sempre più buia. Come una malattia, l’idea della fine si è insinuata giorno dopo giorno. Così, quarantotto ore prima di spararsi alla testa nel suo ufficio del San Raffaele, il manager ha preso la sua Smith&Wesson calibro 38 e ha chiesto al nipote: «Ma questa pistola uccide sul colpo?».
Una domanda che era un segnale, ma vallo a capire. Il nipote di Cal, sentito dagli inquirenti, ha raccontato quel dialogo tragicamente frainteso, e che solo dopo il suicidio di lunedì ha aperto uno squarcio sugli ultimi giorni di vita del delfino di don Verzè. «La Smith&Wesson è potente?», gli chiede Cal. «Di più la Magnum», è la risposta. Il manager insiste. «Ma la Smith&Wesson uccide sul colpo una persona?». Il nipote non dà troppo peso a quelle domande. Pensa - mette a verbale - che lo zio voglia semplicemente cambiare arma. Non è così. Cal, già in quelle ore, sta meditando di farla finita.
Anche per questo, il pubblico ministero Maurizio Ascione - titolare del fascicolo aperto per istigazione al suicidio - sta raccogliendo le testimonianze di parenti e collaboratori del manager. Per capire quale fosse il contesto in cui è maturato il dramma, e ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto. «Era amareggiato dagli attacchi sui giornali nei suoi confronti, che lo dipingevano come il vero responsabile del dissesto. Io cercavo di scuoterlo e lui rispondeva che per certi attacchi non si può fare nulla». Così racconta al pm l’addetto alla sicurezza che lunedì è entrato nell’ufficio di Cal, trovando a terra riverso nel sangue. A lui, spiega «dovevo tantissimo», perché lo aveva assunto al San Raffaele. «Tenevo a lui più che a mio padre», ha detto. Secondo il teste, però, negli ultimi giorni il vice di don Verzè «non pareva dimesso o con un atteggiamento perdente, ma fiducioso di risollevare sorti struttura». Forse, «più taciturno». Sette o dieci giorni prima del suicidio, gli aveva parlato della situazione economica: «Cal ha detto che lui avrebbe preferito chiedere sostegno a Giuseppe Rotelli (l’imprenditore della sanità che aveva presentato un’offerta di 200 milioni per rilevare il San Raffaele, ndr), mentre don Verzé preferiva il Vaticano. Del resto l’ipotesi Rotelli non era ben vista dal personale medico, perché si temevano tagli». Poi è arrivato lunedì. Lo sparo nell’ufficio del San Raffaele, e i momenti concitati nel tentativo di soccorrere il manager. L’arma è stata spostata con un calcio e messa in un sacchetto - ha spiegato l’addetto alla sicurezza - «d’istinto, per evitare che partissero altri colpi». Nessun giallo, dunque. Almeno, non sulla tragica fine di Mario Cal.
Ma in parallelo, prosegue l’indagine sui conti del San Raffaele, affidata ai pm Luigi Orsi e Laura Pedio. La Procura di Milano, infatti, sta valutando l’ipotesi di inoltrare una richiesta di fallimento per il San Raffaele. Il protocollo civile avviato per verificare la reale situazione patrimoniale della Fondazione, al momento, è a un vicolo cieco. Perché i magistrati aspettavano dall’istituto il piano per un concordato preventivo già lunedì.

Il piano, però, non è ancora stato presentato. E se da via Olgettina non arriverà una risposta in tempi brevi, sul gigante della sanità potrebbe allungarsi lo spettro di un’inchiesta che andrebbe a scavare in un bilancio sprofondato nei debiti.

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