Lui è sicuro di aver vinto, ma per spiegarlo ha avuto bisogno di sei ore. Adesso si attende di vedere se il giudice Elyahu Winograd e i suoi colleghi saranno disposti a credergli. Non è solo una questione d'opinioni. Da quelle interminabili sudatissime sei ore di deposizioni dipendono i destini e la carriera politica di Ehud Olmert, il premier israeliano. Se la commissione incaricata di valutare i comportamenti di politici e militari durante i 34 giorni di guerra contro Hezbollah, in Libano, accetterà le spiegazioni del primo ministro, allora Olmert potrà ancora sperare di aver un futuro.
Se le sue risposte verranno considerate inadeguate, il successore di Ariel Sharon dovrà trovarsi un buen retiro dove godersi la pensione e cercar riparo dalle polemiche. Certo, salvarsi con una piena assoluzione non sarà facile. In quelle sei ore sulla graticola il premier ha dovuto chiarire tutti i misteri di quella guerra. Spiegare perché promise di distruggere Hezbollah e riportare a casa i due soldati rapiti il 12 luglio scorso anziché limitarsi a una più semplice e realizzabile rappresaglia limitata. Ripercorrerne alcune decisioni chiave come quella di appoggiare e giustificare per molte settimane le inconcludenti e limitate operazioni a capocchia di spillo volute dal capo di stato maggiore Dan Halutz . Giustificare il via libera alla massiccia operazione di terra scattata solo 48 ore prima del cessate il fuoco finale.
Olmert ha dovuto spiegare le ragioni che, tre mesi prima di quella guerra, lo indussero a regalare la poltrona della Difesa all'ex sindacalista laburista Amir Peretz anziché a uno scafato ex generale. Un'impresa non facile, soprattutto con il senno di poi. A quel tempo affidare un ministero fondamentale come la Difesa a un alleato di governo uscito trionfante dalle elezioni poteva risultare il male minore. Se non altro per non concedergli le Finanze mettendo a rischio la cruciale ripresa economica. Rispiegarlo sei mesi dopo la fine di una guerra poco brillante non è altrettanto facile. Anche perché, difendendo quell'opzione politica, il premier si preclude la possibilità di scaricare sulle spalle di Peretz tutti gli errori e le indecisioni di quel conflitto.
Cercare di persuadere i giudici di aver conseguito una brillante vittoria e di aver raggiunto obbiettivi significativi in ambito strategico è per Olmert un passo obbligato. In quelle sei ore di domande e risposte il premier ha dovuto vendere come un grande vantaggio geopolitico il dispiegamento dei caschi blu nel Sud del Libano. Ha dovuto dimostrare al giudice Winograd e ai suoi colleghi di aver reso più remota e assai meno insidiosa la minaccia di Hezbollah. Più difficile è stato dimostrare di aver raggiunto i traguardi promessi.
Hezbollah non solo esiste ancora, ma punta addirittura al controllo politico dell'intero Libano minacciando di trasformarsi da partito-milizia in milizia di governo. Quanto al secondo obbiettivo, ovvero la liberazione dei due militari rapiti, è lecito immaginare che il premier si sia dovuto esibire in equilibrismi e sfide dialettiche ancor più complesse.
L'ultima stazione di quella tormentata «via crucis» sotto gli occhi impietosi dei suoi giudici è stata la spiegazione della massiccia offensiva terrestre lanciata 48 ore prima del cessate il fuoco del 14 agosto. In quei difficili giorni di metà agosto Olmert era combattuto tra la necessità di raggiungere i risultati militari inseguiti inutilmente per quasi un mese di guerra e quella di non ritrovarsi bersaglio delle critiche internazionali prolungando le operazioni. Il risultato fu una vittoriosa offensiva interrotta dall'incomprensibile decisione di accettare il cessate il fuoco mentre Hezbollah era ad un passo dalla disfatta.
Con quella scelta Olmert si giocò la vittoria finale, ma si risparmiò le condanne dell'opinione pubblica internazionale.
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